La geografia è diventata la mappa delle crisi contemporanee. Non solo guerre. Carestie, autodeterminazioni di popoli, trattati, concorrenza sui mercati. Dopo l’epoca delle grandi esplorazioni, arriva quella delle improvvise emergenze di territori che entrano nel circuito mediatico della instant history, qualcosa che travalica la mera cronaca degli affari esteri e costituisce un riferimento obbligato del presente. Questo porta con sé nomenclature di luoghi che si imprimono nella percezione collettiva. Con una differenza rispetto al passato. Non durano più delle circostanze specifiche propalate dall’informazione pervasiva e spettacolarizzata dell’elettronica. Ma questa era stata preceduta dai cinegiornali, dalla televisione e da certa saggistica prêt-à-porter.
Si prenda il caso dell’Ucraina. Donbass, Donetsk, Mariupol, Bucha. Località entrate nel bagaglio quotidiano di tanti che fino a prima del 24 febbraio ne ignoravano l’esistenza o semplicemente le associavano a un contenzioso estraneo all’assetto consueto delle cose. Invece ora acquisiscono l’incombenza della distruzione, della morte, del sangue, del massacro, di un possibile conflitto mondiale. Senza che, però, si comprenda il pregresso di un odio che contrappone invasi e invasori da molto prima delle immagini trasmesse con gli smartphone da inviati e free-lance.
L’orrore di oggi sembra cancellare quello di pochi decenni fa in un zona non lontana dal Paese di Zelensky: la Cecenia. La strage di Groznyj, le milizie filorusse e nazionaliste che competevano in barbarie. La nascita di una generazione, quella autoctona, preparata, temprata e dedita unicamente allo scontro armato, o anche soltanto fisico. Non a caso, i russi impiegano battaglioni di ceceni nella strategia dello sterminio applicata in Ucraina.
Più vicine all’Italia, sull’altra riva dell’Adriatico, le atrocità balcaniche seguite alla morte di Tito. Dapprima la frammentazione della Iugoslavia, con un elenco di scene del crimine sulla scala dell’umanità. Sarajevo, Zagabria, Lubiana, Dubrovnik. Un paesaggio in precedenza anche vacanziero volge alla catastrofe bellica. Cecchini, campi di concentramento, pulizia etnica.
Perfino inferiore, per qualità della ferocia, alla guerra del Kosovo, allorché Belgrado viene bombardata da aerei occidentali e Mostar viene investita dalla visibilità della tragedia senza ritorno. Ma, di nuovo, questo non illumina il fruitore comune dei notiziari sull’accumulo plurisecolare di cariche esplosive nel cuore dei Balcani. Ci si ferma allo sgomento distratto delle riprese ormai ossessive dei cercatori di scoop scioccanti, per fare audience.
Per risalire ai filmati di March of Time, diretti da grandi registi hollywoodiani per documentare l’irresistibile avanzata degli americani verso la vittoria nella seconda guerra mondiale, bisogna passare per il Vietnam, il Congo, la decolonializzazione dell’Africa, le Filippine, tutto quanto ha composto la geografia delle crisi negli anni a ridosso fra il XX e il XXI secolo. Il potenziale di fascinazione mediatica della geografia delle crisi l’aveva ben compreso Peter Arnett, che scrive nella sua autobiografia, Campi di battaglia: «A Saigon si potevano trovare più notizie per metro quadrato di quante non ne avessi trovate in qualsiasi altro luogo dove avevo lavorato». E qui bisogna riandare alle intuizioni di Halford J. Mackinder, il maggiore studioso di geopolitica del periodo fra le due guerre. È lui a far notare che negli istituti scolastici prussiani la geografia aveva un posto precipuo, poiché si trattava di formare un’élite capace di affermarsi nella piena turbolenza di un’epoca, quella contemporanea, di facili spostamenti sulla superficie terrestre, quando ormai le esplorazioni erano terminate con l’accesso ai poli e non rimaneva che organizzare l’atlante a vantaggio dei più dotati. Mentre i docenti inglesi irridevano la geografia, ritenendola superflua, se non inutile, anzi dannosa, in quanto fomentatrice di idee guerrafondaie.
Ora l’analfabetismo funzionale di troppo giovani avvinti dal digitale è l’azzeramento delle capacità analitiche sulle quali basare le visuali di prospettiva allargata. Mackinder sosteneva che la Terra, dopo l’invenzione di mezzi che permettono di attraversarla rapidamente, si suddivide in isole geopolitiche. La principale è quella eurasiatica. Chi la controlla, controlla il mondo. Putin sta cercando di farlo, mentre l’Occidente, malgrado l’afflato pro-ucraina, appare fermo a una disputa che riporta in auge la Guerra Fredda.