A Bologna il mese scorso, in occasione dell’assemblea annuale dell’ANCI, il Presidente della Repubblica è stato di una chiarezza esemplare: il motore Paese riesce ad esprimere la sua potenza solo se i suoi cavalli sono numerosamente attivi e risultano degni della cilindrata che l’Italia intera possiede. Quella che ha mostrato da secoli al mondo intero.
In Italia ci sono 7.134 comuni, la maggior parte di essi (il 69%) contano meno di 5 mila abitanti, sino a comprendere 795 micro-comuni con meno di 500 residenti. Tutto diviso in 20 Regioni, di cui cinque a statuto speciale, delle quali una governata per il tramite di due province autonome, quelle di Trento e Bolzano. Paese bello, anzi bellissimo, ma difficile da amministrare e, soprattutto, da assistere con un attenta legislazione delle rispettive Regioni e Consigli provinciali autonomi, tenuto conto dei principi fissati dalle leggi statali, ivi compresa quella annuale di bilancio. Dunque, il Belpaese è difficile da tenere insieme nell’uniformità dei diritti, da sfruttare nelle sue peculiarità in termini di attrattività turistica, ma anche da tutelare nella sua interezza nei confronti dei limiti storici dettati dalla sua complicata orografia, dalla distribuzione demografica, dalla migrazione interregionale e dalle diverse occasioni di ricchezza, poste a tutela di quelle, innumerevoli, di povertà.
In un Paese come il nostro - lungo e stretto, con 7914 km di mare, distinto da un territorio che parte dalle Alpi per arrivare ai Peloritani, passando per gli Appennini - si evidenziano le difficoltà di programmare, facendo ciò che è giusto ovviamente (nella sanità e nei trasporto locali in primis). Pianificare con strumento di buona programmazione vuol dire mettere su carta le soluzioni venute fuori dalla preventiva rilevazione delle condizioni reali del Paese, delle necessità della Nazione, partendo da quelle estreme, censendo i fabbisogni primari e tenendo conto dei rischi imminenti e prevedibili. Una ineludibilità quella di tradurre le soluzioni politiche in leggi principalmente per i comuni collinari/montani, altrimenti destinati allo svuotamento demografico. Al riguardo, dovrebbe essere speso un grande impegno legislativo sulle politiche aggregative degli enti locali. Ciò stando bene attenti a non commettere stravaganze (del tipo le fusioni strumentali a passare i debiti a comuni «incorporati» ad hoc, modello Cosenza), a rilanciare la messa a terra delle aree vaste, perché no interregionali.
Tutto questo dovrebbe avvenire tenendo conto delle necessità sociali da soddisfare, spesso solo presunte o peggio ancora incoscientemente desunte. Con l’amara conseguenza che l’accertamento del fabbisogno, piuttosto che essere decisivo per gli impegni finanziari statali cui vanno aggiunti quelli regionali, viene aggiustato a seguito dei riparti dei fondi nazionali e europei. Ma non c’è solo il problema della inadeguatezza dei finanziamenti decisi a copertura delle reali esigenze delle periferie emarginate. C’è soprattutto quello del punto di osservazione. Prendendo ad esempio la sanità e l’assistenza sociale, la relativa programmazione la si realizza sulla base delle rilevazioni effettuate da un “attico milanese” piuttosto che da un “terrazzo romano”, dai quali il fabbisogno delle periferie non solo viene, al massimo, immaginato ma addirittura non considerato. Stessa cosa per le condizioni scolastiche e dei trasporti pubblici locali.
Insomma, il ritardi e la superficialità con la quale sono stati “immaginati” i Lep delle materie differenziabili individuati alla fine del 2024 dal Comitato presieduto da Sabino Cassese sono la prova evidente che la previsione dei servizi essenziali viene desunta «dall’alto dei grattacieli» piuttosto che dalla obiettiva rilevazione delle condizioni, spesso inumane, in cui vivono i comuni collinari e montani, assistiti da una viabilità da paura. Comuni, questi, che sono tanti: 1425 tra i 500/800 metri di altitudine, oltre a 668 a partire da 801 mt, con fabbisogni bene espressi ma dei quali nessuno tiene conto nella programmazione nazionale.
Quanto alle Regioni, il primo compito dei neo-Presidenti e di quelli già in servizio è diventare attenti programmatori nelle istituzioni territoriali. Per fare ciò occorre studiare, preliminarmente, come divenire un capace e scrupoloso ricognitore dei bisogni sociali, attrezzandosi di un casco da minatore con lumicino appiccicato su, indispensabile per esercitare la ricerca a partire dai siti più bui, non certo dagli attici della grandi città metropolitane. Un tema da affrontare a breve, infatti, sarà quello del regionalismo asimmetrico, più noto erroneamente come autonomia differenziata che sono due parole assolutamente ridondanti (non esiste alcuna autonomia senza la possibilità di differenziarsi).
L’esperienza della firma delle pre-intese tra Calderoli e Lombardia e Veneto accelerano il percorso della autonomia legislativa differenziata. Le Regioni devono essere pronte e, per esserlo, devono fare approfondimenti seri, conoscendo davvero il tema e non girandoci intorno con toni e grida pseudo-scissioniste o antimeridionaliste. Alcuni Presidenti di Regioni affrontano il problema banalmente, puntando sulla preventiva determinazione dei Lep. È un tema scontato, sancito legislativamente. Il vero problema sarà quello di capire quali saranno le materie differenziabili, «governabili» da ogni singola Regione, facendo una accurata pre-analisi sulle necessità di predisporre una propria governance adeguata. Da una conseguita intelligente asimmetria legislativa potrebbero nascere delle occasioni irripetibili, specie se decise in coordinamento tra Regioni simili. Il Mezzogiorno è, in proposito, il marchio di garanzia!
















