Il fiume carsico dell’antisemitismo, in Italia, non ha mai smesso di scorrere. Oggi riaffiora con una forza nuova, quasi brutale. Non dovremmo stupirci troppo: nel 1938 il governo Mussolini emanò le Leggi razziali e il re sabaudo, Vittorio Emanuele III, le controfirmò senza esitazioni. Il primo finì tragicamente a Giulino di Mezzegra, il secondo morì in esilio ad Alessandria d’Egitto.
La preoccupazione per la crescita dell’antisemitismo è più che fondata: nel 2024 gli episodi registrati sono stati oltre 800, con un incremento del 400%. Un dato che parla da sé. Che cos’è l’antisemitismo? La Jerusalem Declaration on Antisemitism (JDA) lo definisce come «discriminazione, pregiudizio, ostilità o violenza contro gli ebrei in quanto ebrei o contro le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche». Una definizione chiara, che non lascia equivoci. Nei giorni scorsi il tema è approdato in Parlamento grazie a un disegno di legge presentato dal senatore del Partito democratico Graziano Delrio: «Disposizioni per il rafforzamento della strategia nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, per la prevenzione e il contrasto dell’antisemitismo e delega al Governo in materia di interventi relativi ai contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme digitali. Un ddl che mira a potenziare la prevenzione, vigilare sugli atenei - dove il virus dell’antisemitismo si insinua con sorprendente rapidità – e limitare la diffusione dell’odio sui social».
Fin qui, nulla di sorprendente. Ma quando il testo arriva in Commissione Affari Costituzionali, apriti cielo sul Pd. A nome della segretaria Schlein, il capogruppo Francesco Boccia precisa che il ddl è una «iniziativa personale» dei senatori firmatari, quasi a voler prendere le distanze. Come se la lotta all’antisemitismo fosse materia divisiva o, peggio, sospetta. Insomma, Boccia ha indossato la kefiah, al contrario di quando - da ministro del governo Conte - votò la proposta dell’Ihra. Eppure la proposta di Delrio richiama la working definition dell’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance): «Una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio verso gli ebrei». Quella stessa definizione adottata dal Parlamento europeo, sostenuta dal governo Conte II e considerata un riferimento imprescindibile da decine di Stati nel mondo.
Ora, però, qualcuno - non senza malafede - la rinnega, alimentando manifestazioni pro-Palestina che talvolta scivolano in aperto antisemitismo, fino all’assurdo di chi ha esultato per il pogrom di Hamas del 7 ottobre. La confusione è tale da fare di tutta un’erba un fascio, sovrapponendo antisemitismo e antisionismo e confondendo il governo Netanyahu con lo Stato d’Israele. Una cosa è certa: al Nazareno e dintorni regna una grande confusione, che estremizza posture politiche già precarie. Non mancano episodi inquietanti: sindaci che consegnano le chiavi della città alla relatrice Onu Francesca Albanese, nota per la sua ostilità verso il governo Netanyahu - legittima -, ma incline a mescolare antisemitismo, anti-occidentalismo e la vecchia tentazione di delegittimare l’esistenza stessa di Israele.
Altri sindaci invitano a boicottare i prodotti israeliani: forse inconsapevolmente, ma contribuiscono ad alimentare l’antisemitismo. In Puglia si arrivò persino all’assurdo: la giunta regionale decise di denunciare il governo israeliano per il sequestro e l’arresto di cittadini italiani tra cui alcuni pugliesi impegnati nella missione «Global Sumud Flotilla». A Brindisi, il 5 dicembre scorso, solo il pronto intervento delle forze dell’ordine ha evitato una rissa tra crocieristi israeliani della nave Crown e gruppi pro-Palestina. Il paradosso è evidente: il Pd, che nel governo giallo-rosso aveva appoggiato la definizione IHRA, oggi si irrigidisce per non essere accusato di sostenere Netanyahu. Accade tutto questo per il fatto che il camaleontico Conte scavalca a sinistra i dem. Ma l’antisemitismo è una cosa, il governo Netanyahu un’altra. La giustificazione avanzata dai dirigenti più vicini alla segretaria - secondo cui la definizione Ihra impedirebbe di criticare Israele - lascia esterrefatti: la definizione considera antisemita l’equiparazione tra Israele e il nazismo, non la critica legittima a un governo. Un equivoco comodo, che rischia però di cancellare la Shoah e stravolgere la storia. Come può un partito che ha radici anche nella cultura ebraica cambiare pelle e strizzare l’occhio a posizioni cripto-antisemite? L’ombra insinuata su Piero Fassino per il solo fatto di aver parlato alla Knesset, ribadendo la linea storica dei progressisti - «due popoli, due Stati» - e, nello stesso tempo, condannando la violenza dei coloni israeliani nei confronti dei contadini palestinesi, è un segnale di deriva culturale prima ancora che politica. Vale la pena ricordare che l’ex deputato dem Emanuele Fiano vive sotto scorta da 16 anni e che la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ai lager, continua a essere insultata con una ferocia che dovrebbe far vergognare un Paese civile.
Opposti al Ddl Delrio e alla definizione Ihra c’è un milieu di intellettuali e giornalisti che identifica Netanyahu con Israele, confondendo volutamente un governo con un popolo, proponendo di ritirare il ddl. Così facendo, però, offre all’antisemitismo la sua sponda più insidiosa: la rispettabilità culturale. L’Italia, si sa, ama discutere sulle definizioni; ma quando si tratta di definire l’antisemitismo, molti diventano improvvisamente filosofi del dubbio. Forse perché - come insegnano certi sindaci, alcuni intellettuali e più di un dirigente di partito - è più facile disputare sulle parole che guardare in faccia i fatti. E i «fatti hanno la testa dura» e dicono una cosa semplice: l’antisemitismo cresce, cambia linguaggio, trova nuovi spazi di legittimazione sociale e politica. E allora il rischio è chiaro: mentre ci si accapiglia sull’uso corretto dei termini, l’antisemitismo ringrazia, si cambia d’abito e torna in scena. Applaudito, spesso, da chi giura di non averlo mai invitato.
















