«Da sorella di una ragazza scomparsa, non posso che essere felice per il ritorno a casa di Tatiana Tramacere… Detto questo, non posso ignorare l’amarezza nel vedere che un allontanamento volontario abbia messo in moto ingenti risorse…». Pesano e colpiscono come pietre le parole di Lorella Martucci. E inchiodano tutti al muro delle responsabilità, dopo venticinque anni di silenzi, archiviazioni, depistaggi, dubbi e falle. Sul battere e levare tra colpa e dolo, poi, è altro capitolo che merita attenzione e righe a parte. Roberta Martucci scomparve tra Torre San Giovanni e Gallipoli (Lecce) nell’estate 1999 e, da allora, nessuna verità definitiva, né certezza. Un fascicolo riaperto e archiviato nuovamente nel 2022.
Un cold case che continua a bruciare. Come il ghiaccio del silenzio, dei dubbi misti alla certezza che Roberta non è più. Ma se così è, che ne è stato del suo corpo? Nel confronto con vicende più recenti, la rabbia di Lorella ha una radice profonda: la percezione di una giustizia a due velocità, dove l’eco mediatica, il contesto fisico e sociale – ma anche socia -, decide chi merita attenzione immediata e chi, invece, può attendere anche decenni. Fino alla dimenticanza. Che non c’è, non può esserci nei giorni dei familiari che restano. «Il caso di Tatiana ha ottenuto un’attenzione mediatica e istituzionale immediata… Temo che la visibilità social influisca sull’interesse di media, inquirenti e istituzioni, mentre la vita semplice di mia sorella non abbia mai ricevuto lo stesso rispetto».
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