E poi c’è un’altra guerra, quella della comunicazione. Non per niente il presidente ucraino Zelensky era un attore da empatia immediata col pubblico. Da manuale era dire, davanti al Parlamento italiano, che la città di Mariupol somiglia alla nostra Genova. E per capire come i russi l’abbiano distrutta, immaginiamo Genova rasa al suolo. Linguaggio per immagini. Allo stesso modo in cui, per dire che più di 800mila giovani hanno lasciato per sempre il Sud negli ultimi anni, si potrebbe dire che è come se fosse scomparsa una città del livello di Napoli. Una comunicazione giusta, significa mobilitazione psicologica a tuo favore. E se mai come ora il mondo lo sta facendo per l’Ucraina, dipende anche da come l’Ucraina si sta raccontando al di là della mattanza di bombe e morte.
E tuttavia un racconto, nonostante tutto, insufficiente, visto che da noi c’è sempre qualcuno pronto a scambiare invasore e invaso. A cominciare dai pacifisti anzi pacificatori a costo zero (per loro). Perché come il Covid ha generato i no-vax, così la guerra genera i no-war. Invece di dire alla Russia di fermarsi, dicono di fermare l’Ucraina. Invece di parlare di pace giusta, parlano di pace comunque. E invece di riconoscere il diritto di difendersi, si attendono una resa.
Certo la guerra è fra le occasioni in cui si sparano anche più bugie, secondo un detto inglese come al ritorno da una partita di caccia o in una separazione fra coniugi. Ma anche se così fosse, questa guerra l’ha persa finora la Russia, proprio quella più attrezzata nel farla con i suoi hacker come nuovi carri armati. Quelli capaci di entrare nei sistemi informatici altrui paralizzando interi Paesi. E capaci di spingere un Trump all’elezione seminando menzogne sulla concorrente Hillary Clinton. O di averla tentata (solo tentata?) nelle ultime elezioni italiane. Ma la foto dei tre profughi, madre e figli sotto un lenzuolo insanguinato, ammazzati in strada durante la fuga, e accanto il trolley con le loro poche cose, è una atrocità che ha fatto il giro del mondo.
E poi, ancora. Bisognerebbe dare il Nobel per la pace alla giornalista che, durante il principale telegiornale russo, sbuca dietro alla conduttrice con un cartello contro la guerra. Pochi giorni dopo l’editto di Putin che condanna a 15 anni di carcere chiunque parli di guerra, perché quella in Ucraina è una «operazione speciale in soccorso di quel popolo martoriato» chissà da chi. Kamikaze della parola che non è una scapestrata eroina, ma una madre di figli che ora vive nell’incubo. «Non potevo restare in silenzio». Nel Paese illiberale in cui tante emittenti private hanno dovuto chiudere e altri giornalisti scomodi sono stati ammazzati così come tanti oppositori. E nel Paese in cui le tv continuano a parlare di denazificazione dell’Ucraina, altro che brutale aggressione.
Poco se ne sa e troppa la propaganda di Stato perché il dittatore Putin possa sentirsi in pericolo. Nonostante le tante donne-coraggio che l’hanno finora sfidato. Ma il suo continua a essere un linguaggio fra Hitler, Stalin e Bibbia, con l’Ucraina definita Paese da ripulire da insetti e bande di drogati e omosessuali. E con un genocidio subito dai russi non dagli ucraini. In questo sostenuto dal Patriarca ortodosso Kirill, secondo il quale sarà l’autorità morale sua e della Grande Madre Russia («eredità della Beata Vergine») a salvare l’Occidente corrotto e depravato. Esempio, salvarlo con i razzi sulle città. Mentre Zelensky riecheggia Churchill e il suo «combatteremo sulle spiagge, nelle foreste, nei campi, nelle strade».
Ma fu all’inizio del secolo scorso che Gustave Le Bon teorizzò la psicologia delle folle. Prive di responsabilità e capaci di farsi condizionare da ogni retorica. Come quella di Putin in uno stadio stracolmo, fra mille bandiere, col dito minaccioso puntato verso il mondo come faceva Bin Laden. E labbra da disgusto e ossessione. In un linguaggio del corpo più esplicito di ogni parola. E intabarrato in un parka italiano di cachemere e piume d’oca da 12 mila dollari nel Paese dal reddito medio di 286 euro al mese. E tuttavia immagine di potere, circondato dalla moltitudine di giovani con la «Z», nuova svastica, sulle magliette, e ai quali consegna l’idea di un leader di successo, amato dal suo popolo.
È difficile dire per chi giochi il tempo. Se per chi resiste al mortale assedio, o se per chi sperava nella guerra-lampo ma deve sempre più massacrare per andare avanti. Se per chi è il beniamino mediatico globale o per chi continua a ingannare la sua gente ignara. Ma cala in Italia la grande attenzione alla tragedia, l’assuefazione spinge verso programmi televisivi di intrattenimento. E a Kiev fra le ultime a trasmettere è rimasta Radio Maria, «senza Dio non sappiamo come potremmo sopravvivere».