Il noto filologo Gianfranco Contini, anche illustre partigiano italiano, quando nell’estate del ’62 Maria Corti vinse il suo concorso universitario, le disse: «Mi creda, vada a Lecce, è più elegante», in confronto al caos romano, già amato e odiato, al tempo stesso, da Leopardi. Lì, la giovane studiosa, su consiglio del suo maestro, rimase per diverso tempo, apprezzando questa regione, la sua arte, i suoi luoghi intrisi di storia e poesia. E anche la Puglia è grata al prezioso lavoro di questa raffinata intellettuale, la quale, già da bambina, aveva vissuto e studiato a Otranto. In queste ore, in Puglia, è partita la littorina poetica dedicata a Maria Corti, nell’ambito del Festival diretto da Paola Moscardino. È importante far conoscere ai più giovani, infatti, questa donna, innamorata di Otranto, filologa di primissimo livello, raffinata teorica della letteratura e narratrice militante, scomparsa nel febbraio del 2022. Arrivata a Lecce, la giovane Maria insegnò Storia della lingua italiana, entrando in contatto con Oreste Macrì, autorevolmente riconosciuto come uno degli intellettuali più rilevanti del Novecento poetico italiano, nato a Maglie nel 1913. Maria Corti, frequentando Macrì, si avvicinò a quel gruppo di poeti che, insieme con Bo, Gatto, Traverso, Luzi, Bigongiari, Parronchi, Sereni, Sinisgalli e altri, aveva dato vita alla cosiddetta «scuola ermetica della terza generazione».
Maria Corti amava guardare criticamente a quell’ambiente poetico, all’Accademia salentina di Girolamo Comi, anche direttore della rivista letteraria L’Albero. Non solo… La Corti conobbe anche il poeta magliese Salvatore Toma, di cui, per Einaudi, curò la sua opera, ponendo un particolare sguardo al Canzoniere della morte, opera che raccoglie le più intense composizioni, spesso inedite, del poeta salentino morto suicida a soli 36 anni. L’antologia, curata da Maria Corti, si divide in tre sezioni, che sottolineano altrettanti temi fondamentali dell’artista e che costituiscono il movente della sua scrittura: la pietas verso gli animali, il sottile e insidioso fascino (in senso latino) della morte e l’elemento onirico. Qualcuno sostenne polemicamente, a quel tempo, che la Corti si era accorta troppo tardi di quei versi, ma lei stessa, in una relazione pubblica, disse: «Signori, “Il Canzoniere della morte” è originalissimo e non c’è nulla di simile nella storia della poesia italiana. Ad esempio in “Bestiario Salentino”, Toma preferisce agli uomini gli animali, perché hanno più naturalezza, più ingenuità misteriosa e magica, una purezza e una moralità estranee agli uomini. Il suo primitivismo linguistico è dovuto anche all’oggetto che canta: la civetta, la Calliope, i bisonti, il nibbio, il tordo, la beccaccia. Furiosi impasti linguistici per una realtà che si trasforma in favola. Tra sogno e realtà. Toma trasforma la realtà in favola personale». Possiamo, certamente, prendere alla lettera queste parole, perché, come riconobbe Oreste Macrì, Maria Corti aveva decisamente occhio per l’ottima poesia e per i romanzi originali. E, infatti, è anche importante ricordare l’impegno da lei profuso per Rina Durante, nata a Melendugno nel 1928 e morta e Lecce nel 2004.
Nel ’96, è uscito il volume Gli amorosi sensi (per il lungimirante editore pugliese Manni) presentato proprio dalla Corti, la quale seppe notare, in quelle pagine, un sottile umorismo legato alla vita di provincia. Che altro dire di questa intellettuale? Potrebbe sembrare banale, ma è doveroso ricordare il suo romanzo legato a Otranto e, per far questo, ci affidiamo alle parole di un altro intellettuale di Puglia, prematuramente scomparso, Alessandro Leogrande, il quale scrisse: «Ho riletto di recente il romanzo di Maria Corti e l’ho trovato un libro straordinariamente bello, soprattutto per i primi due terzi. L’ora di tutti racconta della presa di Otranto da parte dei turchi nel 1480, una tremenda mattanza che mietette migliaia di vittime passate a fil di sciabola. Ma quegli eventi, nel romanzo, costituiscono, in realtà, un fondale metastorico. Sulla scena ci sono soprattutto “Loro”, alcuni dei martiri le cui ossa e i cui teschi sono raccolti nella cappella della navata destra della Cattedrale. Sono alcuni di “Loro” – in un ordito in cui l’“io narrante” si fa “io plurale”, sapientemente montato – a raccontare gli eventi, o meglio la propria prospettiva soggettiva in relazione a essi. […] Nel suo essere metastorico e antirealistico, “L’ora di tutti” restituisce dei laceranti brandelli di vita. Si fa metafora, quindi, di ogni assedio».