L’articolo 31 della Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza afferma che ogni bambino ha diritto al gioco e al tempo libero. Questo diritto non è solo un momento di svago, ma una dimensione fondamentale del suo processo educativo e psico-fisico. A tale proposito negli ultimi tempi assistiamo sempre più ad una riscoperta dei giochi tradizionali all’aperto, in strada o negli spazi urbani, come alternativa al gioco digitale o indoor. Questo ritorno non è pura nostalgia, ma una necessità educativa che restituisce ai bambini il diritto all’autonomia, all’invenzione, e riporta lo spazio pubblico a essere luogo di formazione vitale, promuovendo uno sviluppo integrale tra mente, corpo, relazioni e comunità. Giocare in strada richiama giochi storici quali la campana, il salto della corda, nascondino, palla avvelenata, solo per citarne alcuni. Reinserire queste pratiche nella vita urbana è anche un modo per mantenere viva una cultura popolare e trasmettere ricordi generazionali. Oggi invece i giochi si basano sulla tecnologia mobile e quindi con una socialità virtuale (molti giochi si fanno online con amici lontani o sconosciuti), in spazi chiusi e con scarso movimento fisico. I benefici pedagogici del gioco in strada invece sono numerosi, dallo sviluppo cognitivo a quello sociale ed emotivo. A parlarcene è Andrea Mori, progettista, formatore e animatore sociale e culturale. Idea e realizza dal 1980, in tutta Italia, per conto di enti pubblici e privati, attività ludico artistico-educative per promuovere il diritto al gioco, alla cittadinanza e alla partecipazione di bambini/e, ragazzi/e e adulti. Componente del Direttivo della Libera Università del Gioco (LUnGi), nel 2023 ha ricevuto dal Comune di Bari il Premio alla Carriera per gli oltre quarant’anni di impegno sociale-pedagogico educativo svolto a favore dei diritti dei più piccoli.
Andrea Mori come mai si stanno diffondendo sempre più i giochi di strada?
«A volte ritornano i giochi di strada, quelli che i bambini praticavano un tempo in maniera diffusa, senza tenere conto dei parametri di sicurezza, ma con la chiara consapevole incoscienza dei possibili rischi, negli interstizi degli spazi urbani che si potevano sottrarre al mondo adulto. Come i corsi e i ricorsi storici di vichiana memoria, questo tipo di giochi tornano ciclicamente a riproporsi all’attenzione mediatica, evocati da importanti professionisti che in vari ambiti si occupano di infanzia. Vengono infatti indicati quale necessaria epifanìa, controveleno possibile da contrapporre a un modo di giocare infantile e adolescenziale descritto come sempre più divorato dal digitale e dal virtuale».
I giochi di strada rappresentano la palestra e il paradigma della socializzazione e del movimento?
«Ciò che si apprendeva fino a non molti decenni fa è che rispondevano principalmente a due bisogni fondamentali e universali: la socializzazione e il movimento, inteso come esperienza corporea complessa capace di abilitare competenze e intelligenze le più diverse. La socializzazione per le nuove generazioni invece è confinata spesso in alcuni contenitori che in forma più o meno coatta sono costretti a frequentare; la scuola su tutti, poi per chi può, palestre e piscine, corsi e atelier per apprendere lingue e tecniche espressive. A bambini/e e ragazzi/e il mondo adulto richiede sempre più capacità performative piuttosto che lo sviluppo di un’attitudine alla scoperta o l’incontro formativo con l’errore».
Come la città può davvero essere amica dei bambini?
«Rendendo visibile la presenza dei bambini all’interno degli spazi urbani attraverso il coinvolgimento in percorsi di progettazione partecipata, ascoltandone bisogni e desideri, riconoscendo loro capacità e competenze. I giochi di strada sono un’infinità e per chi volesse prendere spunto può sempre andarsi a guardare i circa ottanta giochi dei bambini rappresentati nell’omonimo quadro di Breugel il Vecchio, del 1560. Una vera antologia ludica che ha ancora molto da raccontare».