Giochi nell’URSS non è né Favole al telefono né la Grammatica della fantasia; piuttosto è un taccuino di viaggio. È il Rodari viaggiatore, cronista, pedagogo curioso, che da fine agosto a fine ottobre 1979 attraversa l’Unione Sovietica per osservare e scrivere un libro sui bambini sovietici e il loro ambiente. Il volume tuttavia non vide mai la luce perché lo scrittore morì poco dopo, e quello pubblicato da Einaudi nel 1984 è la trascrizione dei suoi appunti presi meticolosamente giorno dopo giorno durante il viaggio. Si tratta di un piccolo libro che, più che un reportage, è un diario della curiosità, una finestra sul mondo visto attraverso il filtro dell’infanzia.
Rodari non arriva a Mosca con l’entusiasmo del pellegrino ideologico. Il suo è uno sguardo partecipe ma non devoto, disincantato ma non cinico. Cammina tra le scuole, le biblioteche, i parchi, le strade di un Paese che si racconta come patria dell’educazione collettiva, e osserva. Si ferma a guardare i bambini che giocano nei cortili, le maestre che parlano a voce ferma, i cartelloni coi volti degli “eroi del lavoro” accanto ai disegni infantili appesi ai muri. La sua domanda, mai esplicita ma costante, è semplice e radicale: può un sistema così organizzato lasciare spazio all’immaginazione?
In una classe di Mosca, racconta Rodari, i bambini si esercitano con l’alfabeto cirillico. Ma non si limitano a ripetere le lettere: le trasformano in oggetti, le disegnano come animali, ne inventano i versi. Anche nella rigidità sovietica il gioco sopravvive: non come evasione ma come forma di conoscenza.
Non mancano anche i dubbi, però. Rodari osserva che il collettivo, in Unione Sovietica, può essere una forza ma anche una gabbia. Dove termina la comunità e comincia il conformismo? si chiede tra le righe. Nelle scuole che visita tutto è ordinato e impeccabile, ma spesso anche troppo silenzioso.
C’è una scena che resta impressa: una bambina disegna un bollitore che fischia sul fuoco, ma lo racconta come una nave che naviga in un mare di piombo. Rodari ascolta e annota: «Ha già capito che la realtà si può trasformare». Per lui quel disegno vale più di una lezione di pedagogia. È la prova che l’immaginazione, anche nei luoghi più regolati, resiste come una forza autonoma. Lì dove l’ideologia cerca di definire ogni cosa, la fantasia apre una breccia.
Le scuole sovietiche, nota, hanno una forza che l’Italia dell’epoca non conosce: un’idea di educazione diffusa, pubblica, condivisa. Ma pagano anche un prezzo: la perdita di spontaneità, l’assenza di spazio per le voci singole.
A rileggere oggi Giochi nell’URSS ne emerge un doppio ritratto. Da una parte, l’immagine di un mondo scomparso, di una società che voleva educare “l’uomo nuovo” e che finì spesso per addestrarlo. Dall’altra quella di un autore che, anche dentro quel mondo, continua a cercare la libertà nei dettagli, nella parola, nel gioco. La sua lezione è ancora viva: non c’è educazione senza immaginazione, non c’è libertà senza la capacità di inventare.
In tempi in cui la scuola torna a essere terreno di scontro e la cultura appare subordinata all’efficienza, Rodari ci consegna un messaggio che suona più attuale che mai: la fantasia è un atto politico, serve a immaginare il mondo che ancora non c’è.