C’era una volta la strada. Quel rettangolo di asfalto o di terra battuta dove i bambini inventavano regni con un gessetto e un pallone sgonfio. Dove il mondo si costruiva con un “pari o dispari” e si perdeva con una risata. Poi è arrivato Squid Game e qualcuno ha deciso che quei giochi innocenti non erano poi così innocenti. Bastava togliere la merenda, aggiungere la disperazione economica e un paio di mitra automatici, e la nostalgia diventava distopia.
La serie di Hwang Dong-hyuk, arrivata alla sua terza e ultima stagione nel giugno 2025, ha chiuso il cerchio di un racconto che non parla solo di debiti e sopravvivenza, ma della nostra epoca. E, ironia della sorte, il finale aperto lascia intendere che il gioco possa trasferirsi dall’estremo Oriente all’onnivoro Occidente: un contagio simbolico, dove la fame non è solo economica, ma spirituale.
Una descrizione brutale di Squid Game è: “gente disperata che muore male”. Ma questa semplicità è ingannevole. Perché dietro il sangue e i colpi di scena, c’è una precisione quasi matematica. Squid Game trasforma i giochi infantili — Un-due-tre stella, Ddakji, Il gioco del calamaro — in un trattato sulla violenza sistemica. Non più “chi sbaglia paga pegno”, ma “chi sbaglia muore”. Non più la corsa per un ghiacciolo, ma la corsa per la sopravvivenza.
I giochi, nella cultura coreana, erano prove di astuzia, strategia e autocontrollo: il calamaro insegnava equilibrio e collaborazione; il Ddakji (gioco in cui due cartoncini, rosso e blu, devono essere ribaltati) sviluppava destrezza e calcolo; Un-due-tre stella era esercizio di disciplina. Nella cultura italiana, li riconosciamo in campana, nascondino, palla avvelenata: esercizi di allegria e socialità, metafore dell’apprendimento e del rischio misurato.
La differenza è che con Squid Game si sporca tutto in maniera radicale: prende rituali luminosi di crescita e li trasforma in strumenti bui di selezione letale, un’ironica e feroce allegoria del capitalismo moderno. Dove prima c’era gioco, ora c’è sopravvivenza; dove c’era apprendimento, ora c’è speculazione.
Quei giochi diventano una parodia del lavoro, della competizione, della meritocrazia tossica. Il divertimento si fa strumento di selezione naturale. E il risultato è un’estetica della crudeltà: colori da parco giochi, architetture geometriche, regole spietate.
Il genio della serie sta nell’aver attinto all’immaginario infantile per ribaltarlo in strumenti di violenza. In un pubblico iperstimolato, questo innesca un cortocircuito di piacere e dolore, di tenerezza della memoria e brutalità del presente. Guardare Squid Game è come mordere una caramella che sa di ferro. È nostalgia armata.
E qui arriva la rivelazione più scomoda: non siamo solo spettatori innocenti. Siamo noi i VIP dietro le maschere dorate. Il grande spettacolo della morte è pensato per intrattenere persone ricche e annoiate — e “ricchi e annoiati”, nel linguaggio della serie, significa noi. Non i gladiatori: il pubblico del Colosseo, armato di pollici violenti e abbonamenti mensili. Pensiamo di identificarci con i disperati pieni di debiti, ma in realtà siamo coloro che tengono in piedi il gioco, che lo finanziano, che lo godono.
Squid Game è il teatro del capitalismo che si guarda allo specchio. Ci mostra la brutalità della nostra civiltà, e noi, paradossalmente, ne traiamo piacere. È un voyeurismo consapevole: un trauma che ci infliggiamo per ricordarci dell’orrore in cui viviamo. Il rischio, però, è altissimo: alla fine potremmo ritrovarci ancora più cinici di prima, più dipendenti dall’intrattenimento e più spietati, come se avessimo imparato la lezione sbagliata.
Eppure, in questo inferno dai toni pastello, c’è un’intuizione quasi poetica. I giochi di strada non sono mai davvero finiti — hanno solo cambiato campo. Oggi si chiamano concorso, colloquio, algoritmo, spread. L’“un-due-tre stella” della modernità è scandito dal mercato: chi si muove troppo o troppo poco viene eliminato. Il Ddakji è diventato un test di performance, e il gioco del calamaro una metafora della scalata sociale in cui ci si calpesta per sopravvivere.
Forse, a ben vedere, Squid Game non è una fantasia distopica, ma un reality spirituale: il più sincero di tutti. Ci mostra che continuiamo a giocare le stesse partite dell’infanzia, ma con regole peggiori e premi illusori. Che la violenza non è un effetto speciale, ma una conseguenza logica. E che il capitalismo moderno non fa che aggiungere nuove maschere a un gioco antico: quello della sopravvivenza.
Alla fine resta una domanda: chi sta giocando davvero? Forse nessuno. O forse tutti noi, mentre applaudiamo, scommettiamo e ci illudiamo che, in qualche modo, stiamo ancora giocando “per gioco”.