Domenica 19 Ottobre 2025 | 22:52

La via Gluck: quando il gioco era musica

La via Gluck: quando il gioco era musica

 
Nicola Morisco

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Nicola Morisco

La via Gluck: quando il gioco era musica

Domenica 19 Ottobre 2025, 18:41

Dal ragazzo della via Gluck ai beat della strada: la musica, i giochi perduti e la voce dei quartieri. «Questa è la storia di uno di noi, anche lui nato per caso in via Gluck…».

Con queste parole, nel 1966, Adriano Celentano (nato a Milano, ma figlio di foggiani doc) diede voce a un sentimento diffuso: quello di chi vede la propria infanzia spazzata via dal cemento, dal progresso, dal rumore delle ruspe. Il ragazzo della via Gluck non è solo una canzone nostalgica: è un manifesto emotivo di un’epoca in cui l’infanzia si viveva per strada, e la strada era vita, gioco, libertà. Negli anni del boom economico, l’Italia cambiava volto. Le campagne si svuotavano, le città si riempivano, i quartieri crescevano in verticale. Ma tra una palazzina e l’altra, c’erano ancora spazi per i giochi di strada: il campetto sterrato, il cortile del condominio, il marciapiede davanti a casa. In quei luoghi prendevano forma non solo le amicizie, ma anche le regole del vivere insieme: si litigava, si faceva pace, si imparava a condividere. Il gioco di strada aveva un suono riconoscibile: era fatto di risa, urla, palloni che sbattevano contro i muri (a volte rottura di vetri), biglie o i tappi della birra che rotolavano sull’asfalto. Era un’orchestra spontanea in cui ogni bambino suonava il proprio strumento. E quella musica – anche se non scritta su uno spartito – ha lasciato il segno. La canzone di Celentano, con il suo ritmo malinconico e il testo semplice, raccontava già allora il pericolo della scomparsa di quel mondo. Non parlava solo di case costruite al posto dei prati, ma di un modello di infanzia che stava scomparendo: quella in cui si giocava fino al tramonto, senza orari e senza dispositivi elettronici. Il gioco era libero, condiviso, rumoroso. Era, in fondo, musica sociale. La musica italiana ha spesso raccontato quel mondo. Azzurro cantata dello stesso Celentano, Una giornata al mare (portata al successo dall’Equipe 84) entrambi scritti dal grande Paolo Conte: brani che riportano alla mente estati senza pensieri, partite infinite sotto il sole, o pomeriggi di pioggia passati a inventare nuovi passatempi con poco o nulla.

Anche la canzone d’autore, come quella di De André, ha saputo evocare la vita nei vicoli, tra bambini scalzi, libertà e povertà. In quegli scenari la strada non era solo luogo fisico, ma spazio di formazione. Era scuola, parco giochi, laboratorio sociale. Un luogo dove si cresceva, si sbagliava, si imparava a vivere. Oggi, quelle voci si sentono sempre meno. Le strade dei quartieri sono diventate spesso parcheggi, o arterie trafficate dove i bambini non giocano più. Il gioco si è spostato altrove: dentro casa, online, negli spazi controllati di centri sportivi o parchi sorvegliati. Alcuni parlano di una perdita: quella della spontaneità, della libertà, del tempo non programmato. Eppure, la strada non è morta. È cambiata. E con lei è cambiato il modo di farla vivere attraverso la musica. Se Celentano cantava la perdita di un mondo rurale e infantile, oggi nuove generazioni cantano, o meglio rappano, la realtà urbana in trasformazione (nata peraltro agli inizia degli Anni ‘70 in America, tema sul quale magari torneremo in un prossimo numero di Icaro). Nasce qui il collegamento naturale con il rap, l’hip hop e il dub: le nuove voci della strada. Rap, hip hop e dub, diventano i nuovi suoni di un immaginario cortile. Negli ultimi trent’anni, il rap e l’hip hop hanno preso il posto delle vecchie canzoni popolari come colonna sonora dei quartieri. Nate in contesti urbani difficili, queste forme musicali sono diventate strumenti per raccontare la vita reale, spesso dura, di chi vive nelle periferie. Ma non solo. Sono anche una forma di gioco evoluto, dove la sfida non è più segnare un gol con due zaini come pali, ma improvvisare una rima migliore, un freestyle più efficace, un beat più coinvolgente. Il rap è la nuova campana. La breakdance è la nuova corsa nei cortili. Il dub e il reggae urbano sono le nuove melodie che risuonano tra le case popolari. Questi generi portano avanti lo spirito di comunità, competizione e creatività che un tempo si esprimevano nei giochi di strada. E lo fanno con un linguaggio diretto, moderno, spesso crudo, ma sempre autentico. Artisti italiani come Caparezza, Neffa, Marracash, Rancore, 99 Posse, Frankie Hi Nrg, Assalti Frontali e pochi altri ancora, hanno portato alla ribalta le voci delle periferie, i sogni dei ragazzi di quartiere, i problemi, ma anche le risorse culturali che nascono proprio dove nessuno guarda. Il gioco è cambiato, ma la strada continua a parlare, attraverso parole, ritmi e beat. Il ragazzo della via Gluck ci raccontava di un prato scomparso. Oggi, forse, quel prato non lo possiamo più vedere, ma possiamo ancora ascoltarlo: è nei suoni e ritmi del rap di un giovane che registra nel garage, nei versi improvvisati su un muretto, nei bassi profondi di un sound system che vibra in un parco periferico. Musica e gioco, un tempo legati indissolubilmente nelle strade delle nostre città, oggi si ritrovano trasformati ma vivi. La vera sfida è non spegnere mai quelle voci, continuare a difendere gli spazi per l’espressione libera e collettiva. Che sia con un pallone sgonfio o con un microfono in mano, il diritto di esprimersi e di giocare - in strada o altrove - resta uno degli elementi più potenti della nostra umanità.

 

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