«Si fermano lunghe ore. A riposare le ossa. E le ali». I matti, così li potevi chiamare un tempo. Quel tempo di stigma e di subcultura, quando qualsiasi forma di disagio e qualunque ne fosse la causa, diventavano la vergogna familiare da rinchiudere in un manicomio. Perché i matti si chiamavano matti. E il loro unico luogo era il manicomio. E qui, a Bisceglie, in questo splendido parco che corre dal centro cittadino al mare, oltre le recinzioni del Don Uva, «matti» potevi trovarne a migliaia, lungo i viali, sulle panchine, «a riposar le ossa e le ali».
Ci siamo tornati, al Don Uva di Bisceglie. Il parco è deserto, molti degli antichi padiglioni sono vuoti, murati e recintati, perché nessuno possa malauguratamente perdersi in quelle stanze abbandonate. E quella scritta ancora così leggibile nonostante tutto questo tempo, nonostante le porte sbarrate e scrostate? Quasi cinquant’anni fa era una sala da barba, accoglieva centinaia e
centinaia di ospiti del Don Uva. Vuote anche le panchine sparse nella pineta, vuote quasi tutte, a parte quella dove siede Cosimo, ancora lì con il mozzicone stretto tra le dita a guardare nel vuoto e ad abbozzare un sorriso, uno degli ultimi superstiti di una generazione di pazienti estinta, grazie alla ricerca farmacologica, grazie all’evoluzione dei diritti, grazie alle trasformazioni culturali e sanitarie.
Perché siamo al Don Uva? Per capire l’Italia dell’aiuto a circa mezzo secolo di distanza dalla legge Basaglia, quella che chiuse i manicomi nella speranza di sgretolare lo stigma e restituire dignità ai pazienti psichiatrici.
Ma facciamo un passo indietro. L’ospedale psichiatrico di Bisceglie fu istituito nel 1935 con l’ampliamento dell’Istituto di ricovero per alienati cronici «Casa della Divina Provvidenza» fondato nel 1921 da don Pasquale Uva, parroco della chiesa di Sant’Agostino in Bisceglie. Già dal 1922 l’Istituto cominciò ad accogliere alcuni epilettici e minorati fisici e psichici. Le intenzioni del fondatore non erano quelle di istituire una semplice casa di ricovero, ma di avviare la rieducazione dei ricoverati e di insegnare loro un mestiere. Per questo motivo, fin dai primi anni, l’Istituto fu affidato a specialisti di malattie nervose e mentali. Il progetto di don Uva prese vita nel 1931, quando l’amministrazione provinciale di Bari invitò il sacerdote a prendersi cura anche dei «folli» fino ad allora ricoverati al «Mater Domini» di Nocera Superiore con gran dispendio di risorse per la Provincia e un grande disagio per le famiglie dei ricoverati. Nel 1933 furono, così, trasferiti da Nocera a Bisceglie i primi 102 «dementi cronici tranquilli» e fu affidato all’ingegnere Buttiglione il progetto di costruzione di nuovi padiglioni fino a creare una vera cittadella. Ma nel 1978 arriva il colpo di spugna di Franco Basaglia: liberi tutti, ovvero manicomi chiusi, per restituire dignità ai malati e magari, chissà, una prospettiva di vita. Il manicomio di Bisceglie, si svuotò lentamente: le aziende sanitarie (all’epoca erano ancora «unità» sanitarie) dei vari territori di provenienza - non solo pugliesi - li trasferirono nei reparti di psichiatria negli ospedali, nei centri diurni e in case di supporto alle famiglie.
L’ex manicomio si chiama oggi «Universosalute». Le tracce di don Pasquale Uva tuttavia sono ovunque: nelle immagini sui muri, lungo le scalinate, ritratti, fotografie, statue, busti bronzei. I reparti realizzati ex novo e quelli ristrutturati hanno dato a questo grande nosocomio un volto nuovo. Una struttura moderna con macchinari avanzati. Un centro che accoglie i malati di
Alzheimer, un’area dedicata alla riabilitazione da ictus o traumi, una cucina interna, laboratori di analisi. Posti letto tutti occupati e personale medico che segue i degenti con un’attenzione che sa di antico, con dedizione, con anima.
«Sono qui da tanti anni – spiega Vincenzo Coviello, oggi direttore sanitario del nuovo Don Uva – Da prima che la legge Basaglia sancisse la chiusura dei manicomi, riformando il sistema di cura per il disagio mentale, e segnando una svolta nel mondo dell’assistenza ai pazienti psichiatrici». La memoria che Coviello ci consegna è potente. Ci parla degli anni in cui il «malato» veniva preso in custodia, allontanato dalle proprie relazioni personali. Veniva rinchiuso perché ritenuto pericoloso per sé o per gli altri, perché dava scandalo, perché improduttivo o poverissimo o affetto da dipendenze o perché malato di epilessia. Alcuni vivevano confinati. «Non esisteva la batteria di psicofarmaci che ora si utilizzano. Spesso per contenere la loro violenza eravamo costretti ad utilizzare metodi come la camicia di forza, talvolta l’elettroshock». Coviello ci parla anche di pazienti cannibali e di uno dei requisiti fondamentali richiesto per l’assunzione degli infermieri: dovevano essere degli «omoni» pronti a dominare i pazienti violenti, «marcantoni» li chiamavano.
«Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento»: questa era l’idea di Franco Basaglia. E il cambiamento epocale intervenuto nella gestione dei disturbi della mente è un giro di boa sociale
oltre che sanitario. A distanza di circa 50 anni, tuttavia, le patologie della mente sono perfino in aumento, molti di questi pazienti vengono assistiti nei centri di salute mentale, nei reparti ospedalieri nelle comunità ma spesso sono anche riconsegnati al limbo di una legge rimasta monca. «Lo Stato ha deciso che non dobbiamo più occuparci di loro mentre al momento esiste una vera emergenza e non esistono strutture adatte per accoglierli - commenta Coviello - Un paziente psichiatrico molto spesso viene accolto in una Rsa e non riceve dunque le cure adeguate». Ecco perché oggi qualcuno taccia la
legge Basaglia di «ideologia», in verità il sistema sanitario italiano non ha saputo (o potuto, o voluto) dare completezza alla «visione» di Basaglia.
Nell’ex manicomio di Bisceglie, c’è ancora il «padiglione centrale». Oggi è completamente ristrutturato: le stanze pollaio non esistono più. Gli oltre duecento pazienti ortofrenici (quelli affetti da ritardo mentale) vivono in camere accoglienti seguiti costantemente dagli educatori. Hanno quasi tutti più di cinquant’anni, qui sono cresciuti. Molti non conoscono la carezza di un fratello o l’abbraccio di una madre. Qui conosciamo Lucia, intenta a fissare le luci dell’albero di Natale che vanno a intermittenza, questa è casa sua e come per gli altri ortofrenici sarà casa fino alla morte. Poi anche il padiglione centrale si spegnerà. E sarà occupato da altri pazienti, non psichiatrici e neanche ortofrenici. «La psichiatria ormai è un affare tutto privato», sussurra a denti stretti Coviello.
Invece qui, nel padiglione centrale, tra gli ortofrenici, ci imbattiamo nell’unica iconografia che un certo mondo (sicuramente quello che ispirò Basaglia) ha sempre avuto dei matti, «a guinzaglio della pazzia, a caccia di grilli e serpenti, tra il campo e la ferrovia (Francesco De Gregori)»... L’ultima cartolina ingiallita che varcando il cancello di «Universosalute» ci lasciamo alle spalle.