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Legislazione di comodo, una pessima abitudine che continua a dilagare

 
Ettore Jorio

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Ettore Jorio

Legislazione di comodo, una pessima abitudine che continua a dilagare

Lo scorso 9 aprile è passata alla Camera la «riforma» Foti della Corte dei conti

Giovedì 22 Maggio 2025, 13:00

Lo scorso 9 aprile è passata alla Camera la «riforma» Foti della Corte dei conti. Il giorno prima la XII Commissione degli Affari sociale della Camera ha licenziato il testo definitivo del riordino delle professioni sanitarie. Il primo, un brutto esempio di introduzione dei salvacondotti per politici e dirigenti impegnati nella PA, quasi esentati dal risarcimento del danno erariale. Il secondo, tipico esempio della montagna che ha partorito il topolino. Basti pensare che il legislatore ha perso l’occasione, tra l’altro, dopo 26 anni di inerzia sul punto, di sanare 29/30 sedicenti aziende ospedaliere universitarie facendole diventare tali.

L’esame sulla ratio legis, quale criterio ispiratore dei provvedimenti legislativi, porta a ritenere che il prodotto normativo dell’attuale maggioranza parlamentare è tra i peggiori in senso assoluto. Un record con cui è davvero difficile competere stante l’abitudine, tutta italiana, di pervenire tumultuosamente a leggi all’ingrosso, a tal punto da ingolfare la regolazione, quella che in altri Paesi, riesce ad essere molto più efficiente con il dieci per cento della carta legislativa scritta. È un sovrabbondare per rendere le fattispecie meglio regolate? È l’esatto contrario, ovverosia rappresenta il modo di lasciare, tra le righe delle regole, gli spazi interpretativi che ciascuno desidera. Il tutto con il risultato di pervenire ad un impegno giurisdizionale insopportabile, con una Corte costituzionale oberata di procedimenti evitabili.

Oltre a ciò - che è rappresentativo della frequente errata volontà legislativa posta alla base delle regolazioni statali e regionali - diventa preoccupante la frequente emersione di una legislazione di comodo. Ciò nel senso di elaborare il prodotto assistito da una ratio che procura esclusivamente agio politico nelle file di appartenenza, rendendo così funzionalmente conseguibili traguardi altrimenti vietati. Una brutta abitudine, non propriamente lecita, insinuatasi negli organismi legislativi (Governo, nonostante la presenza «guardiana» di un sottosegretario alla Presidenza già rigoroso e apprezzato magistrato, Parlamento e Consigli regionali), quella di praticare l’esercizio da parte dei singoli che li compongono di una sorta di lobbying. E già. Oramai non si riescono neppure a contare le pressioni di gruppi concretizzate attraverso emendamenti che arrivano a pioggia da tutte le parti nei percorsi parlamentari: da Regioni di provenienza, finanche dai Comuni; da gruppi portatori di interessi specifici; da attori economici e sociali che risiedono alla base di motori elettorali.

Così facendo, la legislazione di sovente si trasforma da esercizio di un potere regolatorio atto ad assolvere e facilitare il conseguimento di un interesse generale in una legislazione di vantaggiosa convenienza. Un modus operandi che si materializza attraverso lo strumento dell’emendamento che non si nega ad alcuno, prodotto singolarmente e in gruppi ben costituiti, spesso condivisi anche con le opposizioni, sino ad arrivare ad essere oggetto di un countertrade, atto a formalizzare un baratto politico. Tutto questo si realizza oramai quotidianamente, non di rado approfittando anche delle sviste della Presidenza della Repubblica. Eventi negativi che si verificano soprattutto nella decretazione di urgenza, tanto da fare perdere a quest’ultima il suo significato esistenziale rispetto alle prescrizioni rigide dell’art. 77.1 della Costituzione che ne prevede il ricorso soltanto «in casi straordinari di necessità e d’urgenza». Tale non è assolutamente, per citare un accaduto a caso, quanto disciplinato nell’art. 8, comma 7, del decreto legge 14 marzo 2025, n. 25 nel quale si ritiene di graziare dall’incandidabilità i responsabili di dissesti comunali. Una neo-disciplina, in conversione in Parlamento, della quale non solo è difficile capire ove sia l’urgenza ma della quale diventa impossibile capirne la ratio di interesse collettivo.

Gli esempi di leggi di comodo sono numerosissimi, incrementati di molto nel corso dell’attuale legislatura. Non si contano le leggi abilitative (sino a quando non interferirà una improbabile falcidia della Consulta) di violazione a principi fondamentali e ineludibili della contabilità pubblica e dei bilanci della PA e partecipate, primo fra tutto quello della continuità. Una decisione grave funzionale a fare diventare legale la violazione del principio di continuità dei bilanci, consentendo addirittura di approvare «ora per allora» fino a nove bilanci omessi, mettendo così in crisi la veridicità dei bilanci e la emersione corretta dei saldi (art. 12 bis, comma 1, del DL 51/2023, tentato pure con il 57/2023 lasciato morire perché più facile farlo passare come emendamento in corso di una conversione di un DL più general generico).

Una brutta abitudine, quella emersa, di disciplinare persino l’impossibile, rendendo così più comode le gestioni degli enti territoriali. Mettendoli fuori dal rischio, sino ad una inverosimile dichiarazione di incostituzionalità della legge di comodo (spesso ad personam), il loro facere amministrativo perfezionato al di fuori delle righe. Un facere altrimenti vietato. Per non parlare delle riforme tendenti ad affievolire i controlli contabili e le sanzioni relative, nella sostanza cancellate per il ceto politico, destinatario di un vero e proprio salvacondotto, violando l’essere istituzionale della magistratura dei conti. Da un situazione simile emerge un brutto poker: 1) L’oramai abituale ricorso alla legislazione di comodo, divenuta oramai una terza species aggiunta a quella ordinaria e di emergenza; 2) Una regolazione di «vantaggio» per gli esercenti cariche politiche gestorie, sempre più sfuggenti ad ogni genere di controllo; 3) La costituzione di una filiera politica tra istituzioni, ove la legislazione statale, specie negli appuntamenti di approvazione della legge di Bilancio e delle Milleproroghe, è divenuta ingiustificatamente servente in favore delle istituzioni territoriali; 4) L’abbassamento della qualità del prodotto legislativo che ha costituto per anni il simbolo della patria del diritto.

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