Si approssima il middle term della legislatura. Non vi saranno elezioni parziali, come negli Stati Uniti. La scadenza, però, sollecita anche da noi bilanci e diagnosi sullo stato del sistema politico.
I risultati del 2022 avevano chiuso la lunga parentesi della crisi del bipolarismo italiano. Un periodo «sporco», durante il quale i poli sono state tre o addirittura quattro, le maggioranze fragili e cangianti e i governi tecnici hanno avuto uno spazio eccessivo. Il voto ha fatto seguito alla legislatura che ha visto il fallimento del governo populista giallo-verde, il soccombere dell’alleanza tra Cinque Stelle e Pd e l’esecutivo guidato dal super-tecnico Draghi. Al governo, allora, è tornato il centro-destra (anzi, per la precisione, il destra-centro).
Si è trattato, al tempo stesso, di un ritorno e di una novità. Lo schieramento si è ricompattato ma alla sua testa non c’era più Berlusconi. Bensì una giovane leader che non aveva preso parte a nessuna delle combinazioni governative della legislatura appena conclusa. La circostanza ha portato anche le opposizioni ad avvicinarsi, ancor più dopo che il centro di Calenda e Renzi ha scelto il suicidio in occasione delle elezioni europee. A quel punto, era facile scommettere che la legislatura sarebbe proseguita, questa volta, senza ribaltoni. E che l’unica alternativa al governo Meloni sarebbero state le urne.
Due anni e mezzo dopo è ancora così? La risposta è sì, ma la tetragona certezza che si poteva nutrire 2024, nel frattempo, è stata inficiata dall’invasione della politica estera nel campo della politica interna. Qualche volta accade nella storia. E quando accade ogni previsione diviene azzardata.
Le guerre prima e dopo l’elezione di Trump alla Casa Bianca hanno creato e approfondito una nuova e ulteriore frattura nel sistema politico, che taglia trasversalmente sia la maggioranza che l’opposizione. Se discorriamo di destra e sinistra, infatti, dobbiamo collocare da una parte Meloni, Tajani e Salvini; dall’altra Schlein, Conte e Fratoianni (con Renzi ridotto ad aspirante ruota di scorta). Quando, invece, parliamo di Ucraina, di riarmo o di più stringente unità europea, questa geometria va in pezzi: Salvini e Conte si riavvicinano; Calenda apre a Tajani e Meloni, e il Pd si spacca. Le leader dei due schieramenti - Meloni e Schlein -, come è giusto che sia, fanno di tutto affinché la contraddizione rimanga nei limiti del compatibile. Il destino, però, non è completamente nelle loro mani. Non dipende solo dalla loro abilità.
Peserà assai di più l’andamento della situazione internazionale e quanto diverrà profonda la divisione tra «guerrafondai» e «pacifisti». Non da ultimo, conterà anche la variabile impazzita incarnata da Trump.
Agli esordi della sua presidenza si faceva a gara - non solo a destra - per collocarsi il più vicino possibile al Mago della Casa Bianca. Dopo che la magia del far cessare per incanto ogni guerra si è rivelata una bufala, non è più così. Questa settimana il suo appuntamento con Giorgia Meloni sarà l’incontro di cartello. E c’è chi, parlando più da moralista che da esperto di fatti politici, auspica che la nostra premier lo converta fulminandolo come un novello San Paolo sulla via di Damasco. Non sarà così. Il realismo, che è il Dio che governa i fatti della politica estera, non lo vuole.
Se però Giorgia Meloni, più prosaicamente, uscirà dallo studio ovale con delle garanzie sulla stabilizzazione del rapporto transatlantico (sui dazi innanzitutto e poi sulla visione geopolitica), ciò potrà contribuire ad allentare le tensioni. Non tutto tornerà come prima. Ma un clima più disteso potrà servire a gestire meglio le contraddizioni, anche quelle che affliggono il nostro fragile bipolarismo.