Lunedì 20 Ottobre 2025 | 16:25

Gli sguardi di Avellino e il veleno dell’odio dall’Ucraina ai social

Gli sguardi di Avellino e il veleno dell’odio dall’Ucraina ai social

 
Carmen Lasorella

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Carmen Lasorella

Gli sguardi di Avellino e il veleno dell’odio dall’Ucraina ai social

Su quella parete concava di centoventi metri quadrati c’è il racconto della vita più forte della morte. C’è il volto della guerra che scava abissi d’odio

Lunedì 20 Ottobre 2025, 12:59

Se in un pomeriggio d’ottobre, tra i banchi di una chiesa di periferia sui monti, ci si commuove davanti ad un’opera d’arte dedicata alla pace, che e rimasta lì per sessant’anni a riempire l’intera abside; se si fanno proprie le parole sincere di denuncia dell’ipocrisia, come delle complicità, scoppiando poi in un applauso fragoroso, lunghissimo, contro i linguaggi d’odio, il veleno di ogni narrazione e dei comportamenti di ogni giorno sia nella piccola cronaca, sia nei grandi fatti sulla scena internazionale, in questi momenti difficili, forse il tempo di recuperare c’è ancora.

È accaduto l’altro giorno ad Avellino, nella pieve di San Francesco, per l’anniversario del Murale della Pace del Maestro de Conciliis, realizzato nel 1965 (lui era appena ventenne) portatore di valori inclusivi e di visione profetica, oggi di sconvolgente attualità, che favorisce il dibattito.

Su quella parete concava di centoventi metri quadrati c’è il racconto della vita più forte della morte. C’è il volto della guerra che scava abissi d’odio. Ci sono i simulacri deformi della violenza politica e militare, che hanno segnato la storia del Novecento. Soprattutto, c’è l’omaggio alla resilienza, che non è il privilegio di pochi, ma la forza delle comunità aggredite, anche nelle contrade del Sud, per loro natura eterogenee, oggi più di ieri, capaci di resistere e quindi di rigenerarsi, facendo futuro, benché in uno scenario di macerie.

Potrebbero esserci i nostri volti, tra i cento e passa ritratti sul murale. Potrebbero, ma non ci sono. Ancora. Chi scrive lo ha letto negli sguardi scontenti dei tanti che ascoltavano intorno all’affresco. Non erano solo i pensieri che si rincorrevano sulle guerre in corso, lontane da una pace duratura nella totale assenza dei piani necessari ad affrontare le radici dei conflitti, per propria natura contagiosi e dunque moltiplicatori di rischio. Quegli sguardi esprimevano l’insofferenza è l’impotenza di chi si sente escluso, consapevole di essersi impoverito nei propri diritti e di contare meno all’interno di gruppi sociali sempre più frammentati. Si è dovuta fare l’abitudine allo show quotidiano della politica sui media, che dice di volere la pace, mentre sceglie la guerra, che arma e si riarma e che arriva a sostenere il valore della forza quale strumento di pacificazione, nell’indifferenza alle tragedie provocate, a Gaza e in Cisgiordania, come in Ucraina, in un elenco che potrebbe essere ben più lungo. Uno sberleffo all’intelligenza. Intanto. Ma un danno in corso. E se si affaccia, con moderazione, la curiosità di capire, a cominciare dai componenti dell’amministrazione americana, nella super esposizione mediatica che ha reso Trump più familiare di un parente, dove si possa trovare il tempo per seguire dossier così complessi, rimanendo davanti alle telecamere sempre e in ogni luogo, con il trucco perfetto, non sfugge il dettaglio che con quello stesso sorriso si continua a parlare di odio. «I hate my opponents». Odio i miei nemici. Parole del presidente Trump.

Se lo avesse detto un ragazzo o un adulto, nell’America di oggi, magari sarebbe stato arrestato, nel nome della sicurezza, da noi almeno avrebbe sollevato un caso. O forse no? Perché l’odio si incontra, oramai, anche da noi nei momenti più disparati della giornata. Si vive. In famiglia, a scuola, nel traffico, nel proprio quartiere, nel paese. Te lo raccontano soprattutto le donne: le mamme preoccupate, ogni giorno in attesa dei figli davanti alle scuole o le amiche più giovani, riunite per un aperitivo. Parlano dei «maschi» come abulici o aggressivi, ma intanto chattano video provocanti e provocatori. Cifra comune, il possesso, nell’articolata declinazione delle sue espressioni. Odio che ha seppellito il dialogo, nelle relazioni interpersonali e in quelle sociali, che nasce da rappresentazioni sempre più distorte, a cominciare dalle relazioni di genere. Che non riesce a trasformare la rabbia di fronte alle ingiustizie che hanno riempito le piazze, in impegno civile democraticamente espresso nelle urne per costruire alternative, che si esaspera nello scontro politico e - chiudendo il cerchio - nel paradosso che denuncia l’odio proprio chi lo esalta. L’odio sul web è diventato una pioggia di proiettili per annientare dissidenti e oppositori; l’intrattenimento televisivo ha cambiato nome: come ci insegnano gli americani, l’hate-entertainment che significa intrattenimento aggressivo, funziona meglio e rende di più. I giornali, soprattutto di destra, si misurano nelle parole armate che adoperano. Il livello dello scontro sale e non risolve. Se la democrazia è a rischio, come ha dichiarato la leader dell’opposizione Elly Schlein alla quale ha risposto secca Giorgia Meloni: «Delira!» non si va lontano. Il clima di odio che dilaga, nell’ipocrisia di continue strumentalizzazioni, da ultimo la grave intimidazione nei confronti del bravo collega Ranucci, non serve al paese. Delude la leadership femminile, incapace fare la differenza, brutta copia delle brutte copie maschili. Tornando agli sguardi di Avellino, è sempre possibile la riconciliazione, sentita dai popoli presupposto di pace, come racconta il murale di De Conciliis, realizzato sessant’anni i fa, che continuerà ad emozione anche negli anni a venire. Le Istituzioni dovrebbero esserne consapevoli. Un viaggio ad Avellino?

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