Domenica 19 Ottobre 2025 | 17:09

Stop alla «ninna nanna» dell’acciaio, Taranto adesso non dorme più

Stop alla «ninna nanna» dell’acciaio, Taranto adesso non dorme più

 
Domenico Santoro

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Domenico Santoro

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Per tredici anni ci hanno cullato con promesse e decreti. Ma Taranto non è acciaio: è un sistema vivo, che oggi pretende di tornare in cima all’agenda politica regionale

Domenica 19 Ottobre 2025, 14:00

15:57

Per tredici anni ci hanno cullato con promesse e decreti. Ma Taranto non è acciaio: è un sistema vivo, che oggi pretende di tornare in cima all’agenda politica regionale.

Per tanti anni ci hanno cantato la ninna nanna dell’acciaio.

Hanno detto: «Arriveranno investitori», «si farà la transizione green», «l’Ilva sarà il cuore dello sviluppo». Lo hanno ripetuto governi di ogni colore, come un mantra stanco e rassicurante.

Ma mentre la politica intonava melodie di consolazione, la città non dormiva. Non dormiva per la paura, per la salute, per il lavoro, per il futuro. E soprattutto, non dormiva perché Taranto non è mai stata solo una fabbrica.

Da tredici anni l’Italia guarda Taranto da un unico punto di osservazione: quello dell’acciaieria. Abbiamo discusso, legiferato, commissariato, litigato e sospeso giudizi quasi esclusivamente sull’Ilva, come se la storia economica e sociale di questa terra coincidesse con i suoi altoforni. Così abbiamo smarrito di vista un’intera economia provinciale, fatta di mare, infrastrutture, cultura e capitale umano.

Oggi la provincia conta circa 550mila abitanti. Il PIL pro capite è intorno ai 18mila euro, con un tasso di occupazione al 38,4%: numeri che fotografano una terra fragile, ma non rassegnata. Il porto - che nel 2024 ha movimentato 12,1 milioni di tonnellate di merci, è uno snodo strategico del Mediterraneo - troppo a lungo ostaggio della siderurgia. Attorno ad esso si muove la blu economy: retroportualità, cantieristica e Marina Militare. L’Arsenale può diventare una piattaforma di rilancio tecnologico e industriale.

E poi c’è il mare, quello vero. La mitilicoltura tarantina, simbolo di un legame secolare, con una capacità produttiva annuale di circa 10mila tonnellate di cozze, garantisce lavoro a centinaia di famiglie. Negli anni migliori, il Mar Piccolo superava le 40mila tonnellate, facendo di Taranto uno dei poli più importanti del Mediterraneo. Oggi lotta contro il cambiamento climatico, ma resta una leva identitaria e produttiva di grande valore.

Attorno a questo mare ruota un tessuto agricolo, edilizio e turistico ancora poco valorizzato: la Magna Grecia, la civiltà rupestre, il bellissimo borgo ottocentesco.

Patrimoni veri, offuscati per anni dall’ombra dell’Ilva.

E soprattutto c’è la grande partita delle bonifiche: servono circa 600 milioni di euro per ripulire sessant’anni di ferite industriali. Risorse in parte già previste nel Contratto Istituzionale di Sviluppo, da 1,58 miliardi di euro per 151 interventi. Ma quelle somme devono diventare cantieri veri, non promesse invecchiate nei cassetti.

Nel frattempo la città non è rimasta ferma. Hanno vegliato i parroci di frontiera, supplendo allo Stato nei quartieri più difficili. Hanno parlato gli artisti, cantando controcorrente e senza paura. Hanno studiato e lottato i giovani sindacalisti, capaci oggi di discutere di relazioni industriali con competenza europea. Hanno innovato gli imprenditori, usciti dalla monocoltura dell’acciaio per esplorare la green economy. E hanno formato generazioni le scuole e le università, preparando Taranto ad alzare la testa.

Da oltre un decennio i governi si passano il cerino acceso dell’Ilva, nella speranza che non si spenga nelle proprie mani. Ma ormai è evidente: nessuno comprerà uno stabilimento che apre le porte delle «patrie galere» il giorno dopo l’acquisto.

Taranto, invece, non ha bisogno dell’acciaio per esistere. C’era prima dell’Italsider e ci sarà anche dopo - con o senza forni elettrici, ma finalmente libera dall’illusione di un progresso costruito sulle sue ferite.

E adesso, chi governerà la Regione Puglia nei prossimi mesi deve saperlo: Taranto non può più essere una questione laterale. Deve stare in cima all’agenda politica.

Non per pietà, ma per giustizia e visione. Perché qui si gioca una partita decisiva per la Puglia e per l’intero Mezzogiorno. I tarantini non dormono più e non si accontenteranno di un’altra ninna nanna.

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