Figlie di travagli storici e attriti collettivi, le democrazie costituzionali servono per vivere tollerabilmente gli uni accanto agli altri. Lo fanno garantendo accettabili livelli di libertà personale e sostenibili gradi di pluralismo socio-economico e culturale. Cercano perciò di gestire fisiologici contrasti mediante ragionevoli forme di sovranità popolare. Per questo non sono immuni da insidiose patologie, compresa quella che si manifesta con il diffuso disinteresse per le cose della polis. Lo evidenziano recenti consultazioni regionali nelle Marche e in Calabria, dove il voto è stato espresso da un numero limitato di aventi diritto. E questo mentre l’Istat rende pubblici gli esiti di una ricerca secondo cui tra 2003 e il 2024 si è registrato «un calo generalizzato della partecipazione (informarsi e discutere di politica)»: poco meno di due terzi di cittadini mostrano distacco, più di un quinto profonda sfiducia.
Ciò finisce per impattare sui meccanismi democratici, non per nulla segnati dal divario tra Paese formale e Paese reale: qui la società nel suo complesso, lì le consorterie di destra, centro e sinistra che, profittando di crescenti apatie (da un lato) e fedeli adesioni (dall’altro), soddisfanno i propri desiderata spacciandoli per interessi generali. Lo fanno con la complicità dell’odierno sistema mediatico che, utilizzato specularmente, permette di selezionare non solo gli amici, ma anche gli avversari. In modo che poi si possano ridurre i primi all’adorazione e i secondi ad acerrimi nemici, sempre però nella consapevolezza che gli uni hanno strumentalmente bisogno degli altri.
Si spiega in tal modo la tendenza alla polarizzazione delle posizioni che, alimentate da indolenti atteggiamenti ed estatici tifosi, lasciano poco spazio alle sfumature della recta ratio, dove rectitudo non significa contemplazione di ideologici presupposti: il pensare è rectum quando valutato criticamente attraverso seri tentativi di falsificazione e severi processi conoscitivi per prova ed errore. Quello che, ad esempio, è mancato nei commenti a scioperi e raduni tanto partecipati quanto osteggiati.
Basti dire di quelli pronunciati dal Presidente del Consiglio che, dopo aver abbandonato la pacchia europea, l’ammirazione per Putin, i baci di Biden, i blocchi navali, gli inseguimenti a scafisti lungo tutto il globo terraqueo, scomoda categorie etiche per additare atteggiamenti irresponsabili: li imputa agli attivisti e ai sostenitori della Flotilla, accusati di lucrare sulle sofferenze del popolo palestinese, protestare contro il Governo e sabotare i piani di pace dell’amico americano ex immobiliarista. Il che, d’altra parte, fa il paio con l’incapacità delle opposizioni, a quanto pare dogmaticamente allineate sulle affermazioni delle Relatrice speciale delle Nazioni Unite. La quale è salita agli onori della ribalta anche per le insensate sanzioni dell’Esecutivo Usa capeggiato dal citato miliardario.
Da cui premi e riconoscimenti elargiti da amministratori locali italiani, non ultimo quello consegnato a Reggio Emilia il 30 settembre 2025. Quando la Relatrice, acclamata da un pubblico adorante, invoca la teologica concezione del perdono contro chi quella celebrazione ha ideato, voluto e organizzato. Contro cioè il primo cittadino del Pd che, per aver auspicato la fine dei massacri nella Striscia di Gaza assieme alla liberazione degli ostaggi israeliani, è subissato da fischi, insulti e imprecazioni. «Io il Sindaco non lo giudico, lo perdono», osserva per l’occasione Francesca Albanese, ma solo al prezzo di una promessa: che «questa cosa non la dice più».
Impegno peraltro non richiesto a chi pochi giorni dopo sfila a Roma sotto le bandiere di Hamas e Hezbollah, cui si aggiunge il visibile striscione del «7 ottobre: giornata della resistenza palestinese».
Atti questi che, dando fiato a imprenditori dell’opposta propaganda, sovrasta la voce di tanti manifestanti a favore di una pacifica e civile convivenza, quindi contro i signori e le ragioni della guerra.
Insomma, da fonti contrapposte questi eventi sottolineano la débâcle della classe politica nazionale animata, oggi più di ieri, da assidui falsari, ingordi intellettuali, organiche accademie, pollai televisivi, corporativi oppositori, atrofici e inutili cantori. Riflessi di quelli esteri e sovranazionali, nutrono i propri punti di insediamento anche a costo di deliri collettivi. Uno, manco a dirlo, è messo in scena dalla tragicomica figura di Netanyahu che, dopo aver solcato il revival messianico-biblista degli amici imbonitori alla Smotrich e Ben-Gvir, ha favorito l’ascesa dei nemici del partito armato di Hamas. Il quale, a sua volta, dopo essersi abbeverato ai finanziamenti degli amici ayatollah iraniani e della Qatar charity, ha preparato e finalizzato la strage del 2023, di fatto promuovendo l’inaudita risposta militare come sponsorizzata dal «nemico sionista». Con buona pace del diritto («importante ma fino a un certo punto», dichiara il fine giurista Tajani al fidelizzato gestore della Terza Camera della Repubblica radiotelevisiva italiana) e della retca ratio, sterminati assieme a migliaia di civili, ignari e innocenti esseri umani.
E poi ci si chiede quali possano essere i motivi della disaffezione per la politica e per il senso di appartenenza alla collettività.