Sigfrido Ranucci è nel mirino. Non si comprende tuttavia di chi. Sono in tanti ad essere verosimilmente indiziati. Su questo, oltre che ovviamente sul delinquente che ha collocato l’ordigno sotto l’auto del leader della trasmissione Report, gli inquirenti dovrebbero fare anche l’impossibile per scovare l’identità dei mandanti. Con questo arrivare a capire l’ispiratore e committente del gesto che poteva costare la vita alla giovane Michela Ranucci.
Al di là della ratio malavitosa fine a se stessa del gesto, che francamente appare debole nella committenza, visto l’indiscutibile coraggio del conduttore di Rai3, difficile da intimorire, il fatto assume un significato politico. Le numerose querele a pioggia, frequentemente a firma di esercenti la politica attiva, sono la prova autentica dello spessore di un siffatto significato. Lo assume sotto due diversi aspetti: Sigfrido il Grande scova e coglie direttamente il bersaglio, solitamente nutrito delle malefatte in generale; gli obiettivi sono indistinti ma spesso distinguibili, un po’ come accadde con gli omicidi eccellenti del passato, i cui interessati diretti sono venuti fuori dopo anni.
Alla base di tutto questo, messa in relazione con quanto accadde al Giletti del «Non è l’arena» in onda su La7, si rende necessaria la verità, quella cui Report ha sempre tenuto. Quella verità che non offende alcuno e che genera il privilegio di un pubblico ad essere bene informato. Non solo. Quella verità che fa emergere le negatività crescenti e, spesso, la differenza che c’era con l’antico esercizio della politica con quello attuale, pieno zeppo di lati oscuri, ai quali il giornalismo d’inchiesta (quello autentico e interessato al factum indipendentemente da chi lo compie!) fa le pulci attraverso accurate indagini.
Questo fa Sigfrido Ranucci, oggi imitato da altre buone iniziative in tale senso (per esempio, Fanpage). È diventato così un giornalista parresiasta, perché caratterizzato dal suo modo di fare inchiesta e di proporla senza reticenze. Ha un preciso modo di essere in favore della polis d’ascolto. Prende la parola davanti la telecamera, assistito da filmati e interviste che assumono il ruolo di documenti probatori, per raccontare gli accaduti, nella loro assoluta criticità, non indotta ma provata. Ranucci non pesca le notizie facendo strascico, le cattura a mosca, in una logica mirata assumendole una ad una. Pone l’attenzione al pescato e quindi lo racconta in tutte le sue sfaccettature, lasciando a chi l’ascolta di farsi la propria idea. Ciò in quanto nelle sue inchieste non emerge mai una sua opinione, se non quella generata dallo spettatore sulla base delle immagini e delle letture dei documenti che la trasmissione suggerisce alla sua attenzione.
Considerare il tremendo accaduto della tarda serata del 16 ottobre - e aggiungendo ad esso quanto emerso nel passato vissuto da Ranucci destinatario di numerose minacce – viene fuori la disattenzione della politica parlamentare di fronte al necessario incremento di tutela del giornalismo, quello vero. Quello che rischia senza esibirsi e senza esaltare alcuno. Quello che, proprio per questo suo modo di essere, è trascurato in quanto lasciato sul lastrico della protezione legislativa, che dovrà essere da subito tale da preservare la voce autentica dei professionisti del giornalismo dagli attacchi dei droni querelanti, che colpiscono solo per impedire il diffondersi della verità. Più raramente, per punire quella già diffusa. Un paradigma che porta a ritenere inverosimile la pista mafiosa.