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Quel furore legalitario svanito in 7 mesi dalle piazze e dai palazzi della politica

 
bepi martellotta

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Quel furore legalitario svanito in 7 mesi dalle piazze e dai palazzi della politica

Doveva essere il cambio di passo del Comune di Bari dopo la valanga «Codice interno» quella delibera sulla legalità presentata dall'assessore Grasso. E invece niente, tutto da rifare

Martedì 21 Gennaio 2025, 13:09

Doveva essere il cambio di passo del Comune di Bari dopo la valanga «Codice interno» quella delibera sulla legalità presentata dall'assessore Grasso. E invece niente, tutto da rifare: direttive sulle nomine da riscrivere, municipalizzate ancora appese al giudizio che dal Ministero dell'Interno non arriverà prima di marzo - una volta scongiurata l'ipotesi commissariamento dell'intero Comune - e sindaco di Bari alle prese più con le lotte alle movide importune nel quartiere umbertino che alla criminalità infiltrata nelle società di servizi pubblici.

Tutto da rifare anche sui nuovi criteri di nomina nelle Agenzie controllate dalla Regione, dopo che l'emendamento della grillina della prima ora Laricchia è passato al varco dei voti del Consiglio regionale, ma finito in un pasticcio legislativo che è addirittura arrivato in Procura, col presidente Emiliano che sconfessa e denuncia il via libera assegnato dalla titolare dell'aula consiliare Capone, e dai suoi uffici, al testo finale del Bilancio.

Insomma, gira e volta, né Bari né la Regione riescono, anche in questi piccoli passaggi, a superare e mettere a norma i criteri con cui viene formato il poltronificio delle loro istituzioni, finito ora nelle mani della politica «vu’ cumprà» (le civiche che hanno assalito e spolpato i «carrozzoni pubblici» regionali), ora addirittura nelle mani della criminalità (le assunzioni Amtab svelate dall’inchiesta giudiziaria).

Due passaggi legislativi diversi tra loro, quelli di Bari e della Regione, e magari non privi di errori nell’attribuzione dei poteri o nell’attinenza ai principi della normativa generale. Ma entrambi accomunati da un fattore: dovevano rappresentare la risposta della politica, delle istituzioni, degli organi locali dello Stato alla terribile commistione tra voto e affari, bene comune e interessi privati, verità delle urne e del voto democratico, scelte tecnico-professionali nei posti di comando contro i piccoli, grandi ricatti dei portatori di voti che si muovono all’ombra (perfino) della criminalità organizzata. Ma niente, anche stavolta l’occasione è stata persa. O rinviata a «tempi migliori».

Eppure, solo 7 mesi fa le piazze del capoluogo si riempivano di folle che rivendicavano l'onore della loro città dall'ondata di fango che l'inchiesta sullo scambio di voti portava con sé («Bari non è mafiosa»). Un’indignazione collettiva tale da far saltare per la prima volta le primarie del centrosinistra per la scelta del candidato sindaco, allo scopo di non far «sporcare» i gazebo dalle commistioni tra politica e voti comprati.

E ancora, solo 7 mesi fa i «duri e puri» dei Cinque Stelle uscivano a malincuore dalla Giunta regionale di Emiliano dopo aver scoperto - come Alice nel Paese delle meraviglie di Carroll - che i loro vicini di banco erano impelagati fino alla testa da quelle vicende, o per legami sentimentali (Maurodinoia e gli affari di Sandrino Cataldo) o per contiguità con i poteri a guida Pd nel Comune (la consorte di Oliveri, Mary Lorusso, entrata nella maggioranza di Decaro). E il leader Conte, sempre 7 mesi fa, veniva a Bari a urlare legalità, preannunciando rivoluzioni sia con l’elezione del candidato penalista Laforgia sia nei rapporti con il Pd nazionale di Schlein, schizzato da quel fango che arrivava da Bari. Tutto accadeva solo sette mesi fa. Un’era geologica.

Le folle di indignati in città si sono dileguate e nel Comune di Bari proprio Laforgia, da consigliere comunale, ha chiesto e ottenuto il ritiro della delibera «legalitaria» di Grasso, mentre alla Regione i pentastellati di Conte si sono già messi alle spalle il voto favorevole all’emendamento Laricchia per entrare in trattativa col Pd sulla legge elettorale, con cui far sparire nel dimenticatoio la vicenda nomine nelle partecipate. Tutto dimenticato, tutto passato, meglio tenere la polvere sotto il tappeto. Magari per altri 7 mesi, il tempo di rianimare le piazze per la prossima campagna elettorale.

Di quell’era geologica, in questi sette mesi, sono rimaste (dietro le sbarre) le verità di Olivieri, a questo punto unico artefice di quella «melassa» di affari e interessi politici che ha invaso i corridoi del Comune di Bari e della Regione. E la politica, quella che doveva rispondere con le leggi, almeno oggi, al fango mediatico-giudiziario che ha travolto un intero ventennio, è tornata in buon ordine nel «palazzo», lasciando vuote le piazze di Bari che aveva prontamente animato in campagna elettorale per scongiurare il commissariamento.

Beninteso, quella della trasparenza nelle nomine (o cooptazioni) nei ranghi amministrativi - a prescindere dal merito e dagli eventuali «errori» che le due leggi contegono - non dovrebbe essere solo una battaglia del centrosinistra, che ha in più la responsabilità di governo nei due enti locali. Purtroppo, però, del centrodestra sette mesi dopo non vi è più traccia. In quell’era geologica aveva acceso i fari con le foto-opportunity al Viminale col ministro Piantedosi sulla «Bari mafiosa». Oggi, tornato nei ranghi, sta già sfogliando la margherita per scegliere il prossimo candidato da «immolare» alle urne regionali contro l’invicibile successore di Emiliano.

La trasparenza e la legalità - almeno da queste parti - possono aspettare. La politica ha altro da fare. Al diavolo le leggi, che ci pensino le Procure.

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