È sull’onda emotiva dei più dibattuti temi di attualità politica che interviene per l’ennesima volta il legislatore. Approvato alla Camera lo scorso 18 settembre, il c.d. DDL Sicurezza introduce nuove ipotesi di reato e prevede un inasprimento del trattamento sanzionatorio per fattispecie criminose già previste.
È evidente sin dalle prime righe come il recente provvedimento di iniziativa governativa sia la massima espressione di un atteggiamento politico che tende ad affrontare ogni problema sociale attraverso lo strumento del diritto penale, in spregio al suo carattere sussidiario e alla sua natura di extrema ratio.
Una tecnica legislativa, questa, che risulta in aperto contrasto con le reali necessità dell’ordinamento penale e con i tentativi di razionalizzazione e deflazione intervenuti negli scorsi anni.
Il nuovo disegno di legge, infatti, non soltanto estende – ancora una volta – l’area del penalmente rilevante ma, inoltre, introduce reati che mirano a reprimere condotte punite da altre fattispecie criminose già esistenti.
Si tratta, a ben vedere, di una tecnica legislativa che sembra basarsi sulla ricerca di una risposta agli eventi del quotidiano mediante l’accesso diretto allo strumento più severo di cui dispone l’ordinamento giuridico – il diritto penale – senza porsi il problema di una programmazione che tenga conto dei reali problemi e delle necessità del sistema penalistico.
L’estensione incontrollata dei reati ha, infatti, l’inevitabile effetto di aggravare e appesantire l’ipertrofia tipica della macchina giudiziaria, già di per sé sovraccarica. In più, tale controproducente obiettivo viene perseguito mediante introduzione di norme incriminatrici che ignorano apertamente anni di insegnamenti giurisprudenziali e pongono più di un dubbio in punto di rispetto della Costituzione.
Si pensi all’introduzione del reato di rivolta all’interno un istituto penitenziario, che mira a punire con pene estremamente severe anche la semplice resistenza passiva dei detenuti ad ordini che gli vengono imposti. La previsione normativa lascia di stucco, se si considera che, secondo un principio costantemente ribadito dalla Cassazione da oltre quarant’anni, proprio la resistenza passiva ad un pubblico ufficiale non configura una condotta penalmente rilevante, consistendo in una forma di dissenso scevro di violenza.
In quest’ottica, il recente disegno di legge presenta immediati dubbi di tenuta costituzionale: le nuove norme incriminatrici sembrano voler criminalizzare il dissenso, anche solo passivo e slegato da condotte violente. Quel dissenso che è la linfa vitale delle moderne democrazie.
Ciò appare ancor più evidente con riferimento alla norma che inasprisce le pene per l’ostacolo alla circolazione stradale, chiaramente ispirata – anch’essa – a recenti fatti di cronaca, relativi alle manifestazioni di lavoratori e ambientalisti. Se poi si considera che gli atti di violenza trovano già oggi punizione mediante ricorso alle esistenti fattispecie criminose, se ne deduce che l’obiettivo della duplicazione delle ipotesi di reato sia proprio quello di colpire la manifestazione e l’espressione del dissenso, che è tutelata dall’art. 21 della nostra Costituzione, secondo cui tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
In conclusione, sembra che – facendo eco all’introduzione della norma contro i rave party, altro episodio di duplicazione di un reato già esistente – il legislatore persista nell’affrontare i delicati problemi sociali del Paese mediante immediato ricorso al diritto penale quale prima risorsa. Così – riprendendo la prima delle nuove norme analizzate – la risposta alle rivolte dei detenuti contro il grave sovraffollamento degli istituti penitenziari viene affrontato voltandosi dall’altro lato e inasprendo le sanzioni per chi partecipa a tali proteste.
Una scelta legislativa che, per fornire immediata risposta a fatti di cronaca, attua una politica di criminalizzazione che soverchia interventi di regolamentazione e di assistenza sociale di cui si sente la necessità, lasciando prevalere una cultura della repressione rispetto agli obiettivi di depenalizzazione ed efficientamento del sistema penale, annunciati dal Ministro della giustizia.