C’è un abisso che separa l’autorevolezza dall’autoritarismo. A volersi improvvisare linguisti, anche l’apparente assonanza tra i due termini finisce non appena si considera che la radice del primo è «autore», mentre il secondo deriva da «autoritario». L’autorevolezza evoca prestigio, rispettabilità, stima nei confronti di chi la possiede; l’autoritarismo, viceversa, esprime arroganza e prepotenza, uso distorto del potere, abuso vessatorio della propria autorità.
Considerazioni ovvie? Forse, ma non inutili. Perché le affermazioni di Sergio Mattarella, dopo la discutibile gestione di alcune manifestazioni di studenti pro-Palestina a Pisa e a Firenze, vanno lette e soppesate con attenzione, specie rispetto a ciò che non dicono esplicitamente. Lasciando da parte i commenti di chi, come il vicepremier Matteo Salvini, dimostra (o finge) di non averne compreso il senso riducendo il tutto a un derby calcistico tra chi è a favore e chi è contro la polizia; peraltro mettendo a segno un autogol con l’enfatica dichiarazione «giù le mani dalle forze dell’ordine». Una gaffe non da poco, visto che il problema è esattamente l’inverso: metter «giù le mani (e i manganelli) dagli studenti inermi» quando non sussiste alcun pericolo concreto di turbamento dell’ordine pubblico. E tranquillizzando, al contempo, la premier Giorgia Meloni che ritiene «molto pericoloso togliere il sostegno delle istituzioni a chi ogni giorno rischia la sua incolumità per garantire la nostra». Nessuno - tantomeno il Presidente della Repubblica - ha inteso attaccare o delegittimare la polizia, presidio necessario di ogni forma di Stato, né intentare processi sommari - come ha paventato il ministro degli Interni Matteo Piantedosi nella sua informativa alla Camera - ma se mai auspicare un approccio più appropriato a situazioni del genere che eviti eccessi inutili e controproducenti.
La Costituzione all’art. 17 sancisce il diritto di riunirsi, pacificamente e senz’armi (co. 1), prescrivendo un semplice obbligo di darne preavviso all’autorità qualora la riunione avvenga in luogo pubblico. Non anche di ottenere un’autorizzazione preventiva ad hoc, tipica dei regimi autoritari. Il mancato preavviso - com’è accaduto in questa circostanza - non comporta il divieto di manifestare ma costituisce una contravvenzione (art. 18 Tulps). L’utilizzo del manganello poi, classificato dalla legge come strumento «atto ad offendere» (art. 4 della l. 110/75), ha una funzione «antisommossa» e il suo uso deve essere proporzionato rispetto all’esigenza (legittima) di tutela dell’ordine pubblico.
Le parole scarne – ma insolitamente taglienti e sferzanti – di Mattarella tracciano una via e lasciano intendere che nel caso di manifestazioni studentesche innocue occorre far prevalere il rispetto della libertà di esprimere pubblicamente la propria opinione, ricorrendo all’uso della forza soltanto quale extrema ratio (tanto più se si tratta di minorenni). Solo così si garantisce l’autorevolezza delle forze dell’ordine che altrimenti, aggiungiamo noi, si trasformano in un nemico da combattere. E dire che «con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento» significa pronunciare una sentenza senza appello, che va ben oltre le specifiche vicende che hanno originato l’intervento del Capo dello Stato. Vuol dire rifuggire da un modello di potere di stampo autoritario, da ogni forma di autoritarismo, non solo negli schemi normativi (oggi lontani mille miglia da una visione di tal genere) ma anche nella realtà quotidiana.
Theodor W. Adorno, filosofo e sociologo di punta del XX secolo, individuò tra i tratti fondamentali della personalità autoritaria l’aggressione e la ricerca dell’ordine in maniera esasperata, precisando che l’ideologia autoritaria si caratterizza per l’attenzione rivolta ad un’articolazione gerarchica della società e all’ordine come principio costitutivo fondamentale. Ordine e gerarchia come fondamenti dello Stato. Netta la distanza dalle concezioni liberale e democratica, che pongono al centro l’individuo e che lo studioso tedesco vide franare sotto la spinta del nazionalsocialismo.
Oggi che quelle tragiche esperienze appartengono alla storia non si può più invocare l’autoritarismo – e neanche alludervi – per preservare l’ordine sociale. Tanto più di fronte a manifestazioni di dissenso che hanno ben poco di pericoloso per la sicurezza collettiva. Siamo lontani dagli anni Settanta del secolo scorso quando le piazze italiane divennero aspro terreno di scontro tra gli epigoni di opposte ideologie e tra questi e le forze dell’ordine. Anni di piombo, nei quali a dominare era la violenza rossa e nera e a infrangere il silenzio il rumore delle armi. La Generazione Z non merita di diventare vittima di un fallimento – sociale, culturale ed educativo – e di essere «messa in riga» a colpi di sfollagente. Rappresenterebbe un inaccettabile ritorno al passato. E una sconfitta per tutti.