Sabato 06 Settembre 2025 | 12:31

Non solo vini e città d’arte, l’Italia ha bisogno di grandi marchi globali

 
Salvatore Rossi

Reporter:

Salvatore Rossi

Non solo vini e città d’arte, l’Italia ha bisogno di grandi marchi globali

Un potente fattore di identità di un Paese è l’economia

Domenica 06 Novembre 2022, 14:40

Un potente fattore di identità di un Paese è l’economia: ciò che si produce, si consuma, s’investe per il futuro, si scambia col resto del mondo. I fatti economici influenzano profondamente le relazioni internazionali, anche quelle che coinvolgono la cultura, l’arte, la storia, la politica. Prendiamo le grandi imprese. Nell’immaginario di molti l’identità di una nazione è fortemente connotata da alcune grandi imprese che sono nate nel suo seno. Gli Stati Uniti «sono» Microsoft, Apple, Google, Amazon, anni fa «erano» Ford, General Electric, Bank of America. Il Giappone «è» Toyota, Sony, Yamaha. La Germania «è» Volkswagen, Siemens, Allianz. La Francia «è» L’Oréal e Louis Vuitton. E l’Italia? L’Italia «era» la Fiat, che non c’è più (è confluita in Stellantis, un’azienda che ha sede in Olanda), oggi rimangono alcuni marchi della moda e la casa automobilistica Ferrari, ma l’identità italiana nel mondo, anche agli occhi dei suoi stessi abitanti, è piuttosto sostenuta dalle città d’arte, come Roma, Venezia, Firenze, e da alcuni generi di prodotti, come i cibi e i vini, piuttosto che da marchi celebri.

Censire e analizzare le grandi imprese è il modo migliore per capire i caratteri di un’economia nazionale. Quante sono, che cosa vendono, quanto vendono, quante persone impiegano, quanto guadagnano, quanto le valutano gli investitori. La grande dimensione ha consentito finora a un’impresa di generare i due fattori determinanti per il successo duraturo suo proprio e del Paese in cui è basata: capacità innovativa costante; capacità di aggredire il mercato globale con la forza di un marchio riconosciuto e di una organizzazione capillare. La potenza di un’economia sta nel numero e nella dinamicità delle sue grandi e grandissime imprese. Ci aiutano a ragionare sulle grandi imprese globali le classifiche internazionali che alcune importanti riviste dedicate al mondo degli affari stilano periodicamente. Ne scelgo qui una, quella di «Forbes», la cui edizione 2022 è uscita qualche mese fa. Essa elenca 2.000 imprese di tutto il mondo quotate nelle rispettive borse valori e le colloca in ordine dimensionale secondo un metodo complesso che tiene conto del fatturato, dei profitti, dei cespiti, della valutazione di borsa.
Prime impressioni che si ricavano da questa classifica riguardano il modo in cui la produzione su larga scala del mondo intero si suddivide fra i diversi settori. Le più grandi imprese sono prevalentemente banche, distributori commerciali, produttori di software, compagnie gaspetrolifere, società di telecomunicazioni, compagnie di assicurazione e riassicurazione. Dunque, non imprese manifatturiere in senso tradizionale, ma produttori di servizi; in qualche caso - come per le compagnie petrolifere e di telecomunicazioni - con una qualche materialità «industriale». La vecchia industria fatta di fabbriche e ciminiere è dunque scomparsa dal panorama delle grandi organizzazioni produttive? Naturalmente no. Ritroviamo anche i vecchi marchi industriali e i tradizionali settori manifatturieri ereditati dal passato, a iniziare dai produttori di automobili, ma nel complesso otteniamo da questa panoramica di grandi imprese globali la conferma della dominanza assoluta dei servizi; gli stessi manufatti, come uno smartphone, sarebbero oggetti inerti senza lo spirito vivificante dei servizi che contengono.

Ma torniamo alla nazionalità di queste imprese. Nelle prime cento posizioni vi sono quaranta imprese statunitensi, quattordici cinesi, sei tedesche, sei svizzere, cinque giapponesi, cinque inglesi, cinque francesi, ma nessuna italiana. La prima impresa italiana in classifica è l’Enel, al centodecimo posto. Va notata una particolarità delle grandi imprese italiane censite da Forbes: la persistente presenza dello Stato nel loro azionariato anche quando sono quotate. Lo Stato detiene il controllo, in misura tale da consentirgli di nominare i vertici aziendali, di Eni, Enel, Leonardo, Terna, oltre che di Poste; A2A è controllata da enti pubblici locali; nell’azionariato delle due grandi banche Unicredit e Intesa Sanpaolo resta importante la presenza di fondazioni, che sono, sì, soggetti privati ma di fatto controllati o influenzati da enti pubblici locali. Tutto questo è il residuo della stagione della grande impresa pubblica italiana, terminata negli anni Novanta del secolo scorso. Dal punto di vista della composizione settoriale, la compagine delle grandi imprese italiane non si discosta invece dalla norma globale della dominanza del terziario, in particolare delle imprese finanziarie. Sono però più netti in Italia i confini fra servizi e industria di quanto non appaiano in altri Paesi, perché non sono rappresentati i settori nei quali sono più intrecciati aspetti tangibili e intangibili, come il mondo web, le biotecnologie, il sistema salute e benessere. Proprio quei settori che fanno da convoglio alla grande innovazione.

Vedo in atto due tendenze che possono temperare il giudizio negativo sull’economia italiana che può discendere da quest’analisi: la prima planetaria, la seconda specifica delle nostre imprese. La globalizzazione, cioè l’avere il mondo intero come luogo di produzione e come mercato di sbocco, appare in ritirata a causa di eventi catastrofici come la pandemia e la guerra. La globalizzazione è stata negli ultimi trent’anni una delle forze trainanti della grandissima dimensione d’impresa. Lunghe «catene globali del valore» consentivano lo spezzettamento della produzione di un singolo bene in centinaia di imprese di decine di paesi, attribuendo all’azienda leader, venditrice di quel bene sul mercato mondiale, un grande potere di coordinamento e direzione. Esse si vanno accorciando e contenendo in aree territoriali più ristrette. Questo ridà spazio alle imprese medio-grandi.

Dal canto loro, le imprese italiane stanno salendo lungo la scala della sofisticazione tecnologica, superando i tradizionali prodotti del made in Italy. Rimane necessario, non foss’altro che per un fatto d’identità, che fra le imprese italiane si affermino grandi marchi globali, per sostenere la reputazione del Paese anche al di là della sua storia e del suo gusto per il buon vivere.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marchio e contenuto di questo sito sono di interesse storico ai sensi del D. Lgs 42/2004 (decreto Soprintendenza archivistica e Bibliografica Puglia 18 settembre 2020)

Editrice del Mezzogiorno srl - Partita IVA n. 08600270725 (Privacy Policy - Cookie Policy - - Dichiarazione di accessibilità)