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Siamo stanchi della guerra, ma l’Ucraina libera riguarda il nostro destino

 
Antonio Caprarica

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Antonio Caprarica

La guerra in Ucraina alimenta carestie e rivolte popolari

L'Ucraina devastata dalla guerra

«Morire per Kiev? No, grazie». È la finta domanda che certo pacifismo occidentale continua ad agitare per confondere le acque

Venerdì 22 Luglio 2022, 13:45

«Morire per Kiev? No, grazie». È la finta domanda che certo pacifismo occidentale continua ad agitare per confondere le acque, riecheggiando il tristemente celebre «Morire per Danzica ?» di 83 anni fa. Nessuno allora, nelle sole fragili democrazie sopravvissute in Europa, vale a dire Francia e Gran Bretagna, aveva voglia di rischiare la vita per una remota e sconosciuta città polacca. Dopotutto, quant’era lontana Danzica da Parigi?

1590 chilometri. Esattamente tanti quanti ce ne vogliono per andare da Trieste a Kiev. Non sono abbastanza per restarsene tranquillamente rintanati in casa? Nell’inazione delle democrazie occidentali, Hitler s’ingoiò la Polonia in una settimana. Per raggiungere Parigi, nel maggio del ’40, le sue Panzer-Divisionen ce ne misero appena una di più.
Putin non è Hitler? Così ci rassicurano i «pacifisti» di obbedienza putiniana in ogni angolo d’Europa ma con particolare efficacia, a quanto sembra, in Italia. È un tipico esempio di storicismo banale. Ma forse pericolosamente bastevole a tranquillizzare un’opinione pubblica che non ha voglia di alzare gli occhi dai guai di casa sua. Il gas scarseggia, l’inflazione è alle stelle, la recessione alle porte. Se Putin non è il «mostro» hitleriano, non si può arrivare a un compromesso, a spese - si capisce - degli ucraini? Al centocinquantesimo giorno di guerra in Ucraina gli europei, con la sola eccezione dei baltici e dei britannici, sono stufi.

L’indignazione corale a febbraio di fronte all’invasione putiniana minaccia ora di stingersi in indifferenza. I massacri quotidiani compiuti dai soldati del Cremlino sono resi meno orribili dall’ormai tragica abitudine. Il numero crescente di civili ucraini ammazzati dalle bombe russe una fatalità come quella dei morti da esodo estivo in autostrada. I telegiornali e i talk show, termometri sensibili dell’opinione pubblica, hanno già cancellato il conflitto dai titoli di testa e dai temi di dibattito. Diavolo, Conte ha buttato giù Draghi e la benzina ha sfondato da un pezzo il muro dei due euro... non basta, anche senza la guerra ? Ma poi, che testardi questi ucraini. Non gliel’ha consigliato anche quel genio di Kissinger di cedere a Putin Crimea e Donbass, sperando che lui si accontenti e si fermi?

Non è mai lecito ignorare , o peggio ironizzare sulle preoccupazioni della tanta gente che fatica ad arrivare a fine mese. E che a ragione identifica nella guerra la causa principale del peggioramento delle sue condizioni di vita. Ma è doveroso invece indicare l’avvelenamento dei pozzi operato da apprendisti stregoni, professionisti della «disinformazia» (come si chiamava in epoca sovietica), opinionisti narcisi che semplicemente rovesciano la verità dei fatti. Non è Zelensky che ha lanciato l’aggressione ma il criminale revanscismo imperialista di Vladimir Putin. Non è Zelensky che rifiuta di fermarla ma il dittatore di Mosca che in Ucraina ha scatenato le sue armate in quello che la grande storica del gulag Anne Applebaum giustamente definisce «terrorismo di Stato».

Certo che il «piccolo zar» di Mosca non è la replica del folle caporale di Monaco. È solo il tipico medio-burocrate degli apparati di repressione sovietici che un accidente della storia (e la corruzione della famiglia Yeltsin) ha sbalzato sul trono del Cremlino. Lì, dopo aver definito la fine dell’URSS «la più grande tragedia del Ventesimo Secolo», si è convinto - circondato da complici di latrocinio, pseudo-patriarchi e finti profeti della grandezza russa - che il suo compito messianico sia restaurare l’impero. Se non nei confini di Stalin, che l’aveva spinto fino a Berlino, almeno in quelli più ridotti dell’ultimo zar Nicola II.
Perciò prima un pezzo della confinante Georgia, antica vassalla ribelle, poi l’intera Crimea, quindi un lacerto di Donbass, infine tutta l’Ucraina, se la disperata resistenza del sentimento nazionale degli slavi di Kiev non l’avesse impedito. Chi si sorprende davanti al dispiegarsi del piano, mente o era distratto. Nel 2008 a Bucarest, all’ultimo vertice NATO a cui venne invitato (prima che invadesse la Georgia), Putin fu esplicito nel definire l’Ucraina una «nazione inventata» nel 1917 dai rivoluzionari bolscevichi. Per i nazionalisti russi, era semplicemente e sempre sarebbe rimasta, «la piccola Russia».
Attorno a questa «piccola Russia», grande due volte l’Italia, oggi si giocano il destino d’Europa e i nuovi equilibri di potere globali. Chi mai potrebbe non essere stanco di guerra? Solo i pazzi, i dittatori e generali, e le ultime due categorie sono ben rappresentate a Mosca. Ma non è possibile chiamarsi fuori, immaginare che questo conflitto e i suoi esiti non ci interessino. Nemmeno se fossimo una piccola isola mediterranea anziché il grande Paese che siamo, cruciale per l’avvenire dell’Unione Europea.

A morire per Kiev purtroppo sono gli ucraini, ma noi non possiamo abbandonarli al loro fato. E non solo per dovere morale ma perché questo è il nostro interesse nazionale. Cedere oggi davanti a un dittatore guerrafondaio che vuole piegare l’Europa con la forza delle armi e il ricatto del gas, vorrebbe dire ritrovarselo di fronte domani ancora più potente e aggressivo. Da Mosca i suoi sicofanti, e gli agit-prop reclutati in Occidente, cercano di convincerci che non c’è partita, che le democrazie oggi sono troppo deboli per vincere il confronto con la forza bruta delle dittature, il fascino dell’uomo forte al comando per sempre. Perciò il regime irride ai nostri leader democratici che cadono nella normale lotta politica, Johnson ieri, Draghi oggi, chi altri domani?
Mosca ne ride, e non capisce che è proprio questo a rendere più forti noi europei. Possiamo liberamente cambiare i leader quando non ci convincono più, mandarli a casa e scegliere qualcuno più adatto. I russi no, sono condannati a vivere e perire con il loro vozd, il loro «duce». È per questo che ogni padrone pro-tempore del Cremlino non dovrebbe mai dimenticare la lucida analisi del marchese de Custine, visitatore della Moscovia nel lontano 1839: «La Russia è una tirannia temperata dall’omicidio».

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