Mai come in questi giorni si parla tanto di pace. Tutti la invocano, la desiderano, la auspicano. Ma qualcuno la costruisce? La pace ha bisogno di costruttori, di gente di buona volontà cui non basta solo l’assenza di guerra. Perché la pace non è esattamente questo.
I vocabolari dicono che il termine deriva dal latino pax, a sua volta è originato dal sanscrito pak o pag che significa fissare, pattuire, legare, unire, saldare. La pluralità semantica fa capire come la pace non possa essere una sorta di strada a senso unico, uno stato di grazia in cui si calano un individuo o una nazione. In questi giorni macchiati di sangue e di violenza abbiamo davanti agli occhi il significato primo della pace e cioè l’assenza di guerra, di conflitti. È però una definizione infida, perché non dà la possibilità di spiegarne il senso se non ricorrendo alla negazione del suo opposto, cioè la guerra. Questa difficoltà a definire in positivo la pace porta spesso fuori strada, impedisce che essa diventi un valore, cioè qualcosa che vale di per sé. È l’errore che si è manifestato in questi giorni: in tanti schierati per la «pace», ma senza dare armi agli ucraini, altrimenti la guerra non finirà. Della serie, muoiano o s’arrendano così la pace è ritrovata.
La pace ha bisogno di moralità radicata, di forza interiore, di giustizia sostanziale. Tre condizioni che servono per unire. Perché la difficoltà è proprio questa: riuscire a unire le persone, siano esse singoli, magari raccolti in una famiglia, o interi popoli.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale e fino all’altro giorno, esclusa la parentesi della guerra nell’ex Jugoslavia, l’Europa ha conosciuto il più lungo periodo di pace della sua storia. Dopo l’immane tragedia bellica si è capito che alla forza delle armi occorreva sostituire il potere della ragione. Ma l’assenza di scontri armati è stata solo la condizione minima di pace, poiché i conflitti sono proseguiti sotto altre forme, meno cruente, ma altrettanto pericolose. Si pensi alle battaglie economiche, quelle a viso aperto e quelle sotterranee. Quante leggi s’è tentato di fare per bloccare o ostacolare la vendita di certi prodotti? I nostri produttori di vino, di olio, di salumi, di formaggi ne sanno qualcosa. E devono difendersi tanto da nemici esterni, che tentano di falsificare il «made in Italy», quanto dalle stesse autorità che vogliono spingere altre produzioni. Tutto ciò nella quieta Europa. È pace questa? No di sicuro, ma è mille volte meglio della situazione degli ucraini. Eppure sono proprio di natura economica le armi che l’Europa contrappone ai carri e ai missili di Putin. Se lo fa vuol dire che allora sono strumenti altrettanto potenti, altrimenti è una farsa, un mettersi a posto la coscienza per poter dire «stiamo lavorando per la pace».
Molti media stanno raccontando la guerra attraverso le immagini di bambini. I bambini hanno sempre un grande impatto sul pubblico: non solo le loro immagini, ma anche i fatti che li vedono come protagonisti suscitano interesse ed emozioni. Ciascuno rivive quell’età dell’innocenza perduta quando la parola pace non la si conosceva e infatti i bravi maestri la insegnano a scuola. I bambini imparano le parole che indicano ciò di cui hanno bisogno: mamma, pappa, latte. Non hanno bisogno della pace, perché non sono in conflitto con nessuno. È quando cominciano a litigare per il possesso di un giocattolo che si rivolgono a un adulto e capiscono che serve un arbitro, qualcuno che ristabilisca un equilibrio. Chi in questo conflitto può indicare il punto di equilibrio? È difficile dirlo, visto il nugolo di interessi che si celano dietro promesse e prese di posizione. La pace ha bisogno di verità e trasparenza.
Più volte papa Francesco è intervenuto in queste settimane chiedendo che cessassero i combattimenti. Ha fatto bene. Può fare altro? Difficile dirlo, perché il punto di equilibrio per il ruolo politico e spirituale che ricopre è caratterizzato da una complessità profonda. Fosse vivo Giovanni Paolo II forse non avrebbe esitato a volare fino a Mosca e a piantarsi di fronte al Cremlino fino a quando le truppe russe non avessero smesso di seminare morte e distruzione. Come aveva fatto quando era aveva parlato agli operai di Nowa Huta, nella sua Polonia, aprendo una breccia decisiva nella cortina di ferro. Altri tempi.
Di certo la pace non la costruisce Kirill, il patriarca di Mosca, devotissimo a San Nicola e antico frequentatore della basilica di Bari. Dopo dieci giorni di combattimenti ha rotto il silenzio, non per unire ma per dividere ulteriormente. Una spiegazione potrebbe esserci: il capo della Chiesa ortodossa russa è legato a filo doppio al potere politico. Kirill e Putin sono reciprocamente dipendenti e questa sua presa di posizione puzza tanto di legittimazione, di investitura espressamente richiesta e troppo facilmente concessa dal patriarca. La pace ha bisogno di costruttori coraggiosi.