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il racconto
Antonia Chiara Scardicchio
10 Gennaio 2021
Sono mesi che sentiamo bestemmie: al bar, la mattina, come al supermercato, in fila: si cercano colpevoli.
Sentiamo bestemmie: nel panificio nelle chat, in coda alla posta, le parole sono frecce appuntite: autoassoluzioni e condanne, senza scampo.
Altro che Fratelli-tutti: tutti contro tutti.
Da mesi i media raccontano con scene e lessico da guerra civile. Il gioco dell’odio trova e rinnova capri espiatori sui quali versare tutto il veleno che la bile ha necessità di scaricare.
L’oscillazione più comune sembra quella tra tristezza e rabbia: fuga o attacco, le due forme della risposta binaria che ci appartiene come creature animali. Insieme a quella che è propria solo della specie umana: la convinzione di aver capito tutto.
Qualcuno, angosciato e arrabbiato, sembra avere necessità fisiologica dell’attacco, sembra darsi pace – passeggera, bisognosa di sangue sempre vivo – nel trasferire il proprio male di vivere su un altro/oggetto da colpire.
Questo è il racconto, questa la narrazione altisonante: la paura si è presa tutto. La rabbia è totale.
Eppure osservando meglio, ascoltando ancora: in fila, al supermercato come alla posta, nelle chat come al bar, la realtà è, invero, screziata.
Ognuno sta al cospetto di una scelta che riguarda a quale narrazione credere: credere che “andrà tutto bene” è consolatorio ma è anche esposizione feroce a cadere nel suo opposto. Ogni visione “totale” ci illude di fornirci sicurezza mentre, proprio così facendo, ce la sfila completamente. Esiste una via terza, oltre l’oscillazione tra “tutto bene”/”tutto male”: è lo sguardo caleidoscopico delle scienze della complessità che ritrovo in quello splendido testo poetico, “Mondo, ti devo lodare”, di Marcoaldi: imparare a guardare in zoom out, aprendo e non solo circoscrivendo la messa a fuoco dello sguardo.
E in questo allargare la cornice che tenta di stringerci, vediamo un paesaggio che consola occhi, orecchie, ragione e fegato e polmoni: la paura è ancora parte.
Visibile, poderosa, rumorosa, agghiacciante, ma ancora parte, non tutto: mesi fa ho chiamato la referente Covid della scuola di mio figlio, per chiederle alcune informazioni circa la quarantena fiduciaria; sapevo che centinaia di genitori la chiamano tutti i giorni, e a tutte le ore, sicché mi aspettavo una voce trascinata, irritata o quantomeno assai, assai stanca: mi ha risposto stupendomi per gentilezza: parlava piano, e ascoltava.
Mi ha ammutolito, la sua non-rabbia mi ha offerto uno spiraglio salutare.
Da allora mi sono impegnata in un esercizio, compito interiore/esteriore: fare attenzione alle persone che non sono prese: hanno paura, sì, e sono stanche, come tutti, come me, ma insieme all’incerto tengono saldo il desiderio di non perdersi, non perdere sé.
Non si perdono: vegliano su di sé.
Dalla quarantena vegliare è il mio verbo preferito.
Ed eccolo il curioso compito, intimo e politico: vegliare su noi stessi: sulle parole, sui pensieri, sulla tentazione alla presa totale di paura e rabbia.
Non sappiamo quel che verrà. Tutto può succedere: nella classe di mio figlio la famiglia positiva ha ricevuto sostegno e accoglienza; in un’altra scuola la caccia all’untore ha generato assai male.
Tutto può succedere: la pandemia come epifania ci rivela. A noi stessi innanzitutto: ora che non possediamo molto, soprattutto non possediamo il futuro, mentre il presente sembra sfuggire in mille pezzi (come i coriandoli esplosi da quei tubi giganteschi che ho visto alle lauree): possiamo però tenere/trattenere noi stessi.
Tenere la rotta, il timone interiore, mentre intorno vediamo macerie.
In questi mesi ho ripensato spesso alla grazia fragile e maestosa di Gina Lollobrigida in Pane amore e fantasia.
Non so perché ma quando cito quel film tanti immediatamente richiamano quanto lei fosse strepitosamente bella (e sì, lo era lei, e poi la Sofia, con l’indimenticabile mambo nel film che seguì gli altri due) e solo pochi quanto, anche, fosse povera. E sì che quel film di Comencini, come tutti i capolavori mozzafiato di Zavattini e De Sica, teneva la bellezza ricamata a filo doppio con lo strazio. Quei film raccontano, soprattutto i primi due, nel 1953 e nel 1954, di una povertà che moltissimi di noi non hanno mai conosciuto e di una resilienza che forse non potremmo neppure evocare senza quella guida.
La povertà di allora ridimensiona, lo spavento da atroce diventa forse governabile, pensando alla bersagliera scalza. Bella, sì: ma pure senza scarpe.
E poi da lei, mentre vegliamo per tenerci saldi nel mare aperto, il “cinema interiore” – come lo chiamava Calvino – può portarci a Totò, e a Miseria e nobiltà: e oltre a rivederne interiormente le immagini, così a tutti familiari eppure al contempo estranee, considerare che cosa quel titolo dice: il fragoroso ossimoro che ci descrive come umani: miseri, nobili, miseri e nobili.
Come la vita: che ci tira bestemmie ma anche, incredibilmente, canti.
Direi che sì, realisticamente, si muore in entrambi i casi, sia che la si canti sia che la si bestemmi. La veglia interiore e la contemplazione anche dell’ignoto non ci salvano dalla morte: ma io, morendo, vorrei saperlo fare cantando. E, vivendo, al bar saper sentire ancora anche il sapore del cappuccino, e la voce dei tanti che – in molti modi – ancora la cantano, la sanno cantare.
Che poi il canto non si oppone al dolore né lo edulcolora: si canta anche (o forse soprattutto?) per strazio, per ferita, per lutto. Ma è una postura diversa da quella che conosce solo rabbia, solo paura, solo bestemmia: chi anche patendo canta, riesce a restare nella vita non smettendo di amarla.
E’ una vocazione assai particolare questa di noi esseri umani interpellati a tenere insieme nobiltà e miseria, a tenere salda la nobiltà nella miseria, a vegliare sul non perderci quando tutto sembra perduto: ma è forse la nostra più elevata possibilità - scegliendo le parole con cui creiamo i nostri mondi – di non farci prendere.
E provare così a compiere una forma particolare di azione, contemporaneamente intima e politica:
«La contemplazione, ciò che chiamiamo poesia, (…) è il contrario
di ciò che intendiamo troppo spesso con la parola poesia.
Non è una decorazione, non è una Grazia, non è qualcosa di estetico:
è come mettere la mano sulla punta più sottile del reale.
(…)
I contemplativi, chiunque essi siano, possono essere poeti conosciuti come tali,
ma può esserlo anche un imbianchino che fiaschetta come un merlo in una stanza vuota,
o una giovane donna che pensa a tutt'altro mentre stira la biancheria.
(…)
Abitare poeticamente il mondo sarebbe forse prima di tutto guardare pacificamene, senza l'intenzione di prendere, senza cercare una consolazione, senza cercare nulla.
(...)
E penso che in quel momento
qualcosa del mondo si apra come una mandorla».
Christian Bobin
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