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«Chiara, non aprire la finestra!»

 
Angela Aniello

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Angela Aniello

«Chiara, non aprire la finestra!»

Angela Aniello e l’infanzia tarantina ai piedi della fabbrica. Con la paura dell’orco

Martedì 18 Maggio 2021, 10:30

È uscito il libro della scrittrice bitontina Angela Aniello dal titolo «Il verso giusto» edito da Les Flâneurs, un viaggio «per caso» che tocca anche i temi di Taranto e dell’Ilva. Ne pubblichiamo uno stralcio.

Una mattina, alcuni anni fa, nonna Caterina venne a casa, pallida e smunta nel suo soprabito nero e con l’immancabile fazzoletto grigio a fiori sul capo. Di solito non era mattiniera e non si presentava mai a mani vuote. Mi portava sempre dei cioccolatini, poi mi coccolava e sbaciucchiava e io mi sentivo felice. Non quella volta. Si avvicinò a mamma e cominciarono a parlare fitto fitto. Provai ad ascoltare mentre ero intenta a spogliare e rivestire la Barbie di turno. La mia collezione ne contava una cinquantina.
«L’orco, quel maledetto! Mangia ancora! L’ha fatto di nuovo!».
Fu da allora che un orco cominciò a popolare le mie fantasie. Prima non gli avevo mai dato un ruolo nelle favole, secondo me le disturbava mutando gli scenari. Ma sentirlo nominare dai grandi, che spesso lo infilavano tra un discorso e l’altro, cambiò le cose. Di tanto in tanto regnava sovrano e quella volta doveva averla combinata proprio grossa perché vidi mia madre piangere disperata e la nonna scuotere la testa dondolandosi, contraendo il viso in una smorfia di dolore indescrivibile. Lasciai Barbie e mi precipitai a guardare fuori. Chissà che fosse nascosto lì un indizio ragionevole che avvalorasse i miei timori? Nulla! Il cielo continuava a scherzare col rosa e col rosso. Le sue venature sempre uguali a se stesse cominciavano a infastidirmi. Un cielo azzurro azzurro non c’era più. O perlomeno non fuori da casa mia. Ci si aggiungevano il grigio, l’arancio, il viola… ma la purezza del blu mai. Al rione Tamburi parecchie cose stavano cambiando forma, misura, colore. Forse le idee prima di tutto. E anche gli sguardi.
«Non aprire la finestra!», «Non sostare sul balcone!»,
«Non andare ai giardini!».
La lunga serie di divieti si stava trasformando nella negazione dell’esistenza. A noi bambini sembrava di essere in una prigione. Una volta mia madre mi sorprese a disegnarmi dentro una gabbia insieme ai leoni.
«Che significa?» mi domandò.
«Non mi sento libera. Non siamo liberi» risposi quasi con rabbia. Poi continuai: «A scuola la maestra ci ha assegnato un compito: Il sogno di voi bambini. Io ho colorato il foglio di nero perché i miei sogni sono tutti neri. Neri come la polvere che mi togli di dosso le poche volte che scendo in cortile a giocare». Mia madre non sapeva cosa dire. Non poteva darmi ragione.
«E lei che ha fatto quando l’hai consegnato?» si limitò a chiedere.
«Niente! Ho spiegato il motivo e mi ha fatto una carezza. Poi l’ha fatta anche agli altri bambini».
«E dopo?».
«Dopo è suonata la campanella e siamo tutti corsi fuori».
«Capisco».
Avevo dieci anni compiuti allora e le solite spiegazioni infarcite di bugie iniziavano a non bastarmi più. Allora ci riprovai: «Mamma!».
«Sì…?».
«Ma l’orco esiste davvero?».
«No, no, che dici? È solo un modo di dire!».
A volte ci rimuginavo su e una strana inquietudine mi possedeva. Io e Maria, la mia compagna di banco, ci eravamo convinte che fosse nascosto in qualche grotta e che passeggiasse per le nostre strade di notte, quando nessuno poteva vederlo. Durante una di quelle ebbi un incubo. L’orco, altissimo, aveva enormi occhi rosso fuoco e braccia lunghissime. Voleva afferrarmi e io correvo, correvo fino al mare. A un tratto l’acqua diventava nera e mi lambiva i piedi trascinandomi. Mi svegliai di soprassalto urlando. Mamma mi raggiunse subito e mi abbracciò.
«C’era l’orco, mamma…».
«Tranquilla! Non può farti nulla!».
Non ebbi il coraggio di dirle che da un po’, ormai, si faceva largo tra i miei sogni. A Maria però il giorno dopo lo raccontai e mi guardò terrorizzata. Mi confessò che anche lei aveva sorpreso i suoi a discutere dell’orco. Il papà era scuro in viso e la mamma molto triste. L’orco stava acchiappando tutti, senza distinzioni, così le era sembrato di sentire. Forse ci stavamo fissando, forse se l’avessimo lasciato in pace lui avrebbe fatto lo stesso con noi, pensammo. Così ci promettemmo di non parlarne più e giurammo di essere più serene. Alla fine incrociammo anche le dita sul petto. Eravamo più forti della paura noi due, insieme. Tornata a casa tenni fede al nostro giuramento e mi lasciai consolare dall’immaginazione. Era solo un’illusione ma allora non lo sapevo. E mi bastò. C’era una volta un cielo da seminare con una lista di desideri infinita. Vagabondo. Disordinato. Giusto o ingiusto. A forma di pioggia o di sole, con le ali o senza. Un cielo raro, ormai. Trascorse una settimana e l’orco non ci tormentò più. Ridevamo come pazze al solo pensiero di quelle fesserie.
«Visto che avevo ragione? A una cosa non ci pensi e puff, scompare!» sussurrai a Maria, sollevata.
«Ahahah! Tu sei matta da legare. È per questo che ti voglio così bene!».
Ci abbracciammo strette strette, ancora lo ricordo quell’abbraccio. Il tempo, per fortuna, non cancella le cose belle. Al massimo qualche volta le mette in un angolo se deve far male. Una mattina entrai in classe e trovai il banco vuoto. Maria non c’era. Non si assentava mai, se non in casi eccezionali. Febbre alta o mal di pancia da piegarsi in due. E non mi pareva che fosse così. Mi sedetti e attesi che la maestra facesse l’appello.
«Rizzo Maria».
«Assente!» dissi io, con un tono di voce più alto del normale. La maestra continuò a chiamare e poi richiuse il registro.
«Devo darvi una notizia». Aveva gli occhi lucidi e ci guardava uno a uno, come se volesse rassicurarci. «Maria ha perso il suo papà, stanotte. Un incidente in fabbrica. Qualcosa non ha funzionato. Dobbiamo starle accanto, in qualsiasi modo».
«No, non è possibile! Anche papà lavora lì, lo saprebbe. Dev’esserci un errore, ne sono sicura. Maria sta male e basta! Non può essere!» urlai con tutto il fiato che avevo in gola. Poi cominciai a battere i pugnetti sul banco e a piangere disperata.
«Chiara, bambina mia, calmati… non piangere!» mi sussurrò la maestra con dolcezza avvicinandosi.
«Maria è la mia migliore amica e adesso è triste. Sono triste pure io, ecco! E non voglio calmarmi».
Rimasi in silenzio per tutto il resto della mattina, con gli occhi fissi sui quaderni aperti ma con la testa altrove. A Maria, Sara e Vittorio, i suoi fratellini, e a Marianna, così dolce, così buona. Anche lei e mia mamma erano amiche, prendevano il caffè insieme di tanto in tanto. Mentre loro discutevano di cose da grandi noi ci divertivamo un mondo mettendo la cucina sottosopra. Vittorio con i suoi occhioni azzurri, come quelli del padre, ascoltava le storie inventate da me e Maria. Sara era piccolissima. Sgambettava appena e piagnucolava quando perdeva il ciuccio. Allora eravamo ingenue, regine in un bosco incantato e felice popolato da fate e folletti buoni. Nella valle del sole splendeva un castello scintillante, alto fino al cielo, con mille stanze di cristallo. Io, che avevo fantasia da vendere, m’inventavo ogni sorta di bellezza. Maria e gli altri mi ascoltavano stupiti ed entusiasti.
Com’erano spensierati quei giorni. E adesso? Nulla sarebbe più stato come prima. All’uscita la mamma mi aspettava tesa. Ci abbracciammo senza dire una parola e a casa mangiucchiammo qualcosina per mettere a tacere i crampi dovuti più alla preoccupazione che alla fame.
«E papà?» domandai subito.
Mamma mi raccontò che era in fabbrica. Stava coprendo il turno di Salvatore. Si volevano bene come fratelli. Non aveva pianto, non aveva fiatato appena aveva ricevuto la telefonata, poco dopo il mio ingresso a scuola. Aveva preso il pacchetto delle Marlboro rosse e le aveva fumate di fila. Tutte. Doveva sfogarsi e quello era l’unico modo che conosceva. Tra una boccata e l’altra una smorfia di dolore aveva contratto le mandibole e la piccola fiamma riflessa nelle sue grandi pupille aveva trattenuto in sé qualcosa di esplosivo. Come quando le parole si bruciano d’un tratto e perdono significato. Sapevo che papà era forte. Quando stava male non lo dava mai a vedere. Lo si intuiva dagli occhi che diventavano più piccoli e dal puzzo di fumo pieno e robusto che si portava addosso come un marchio. Il più terribile!
«Voglio andare da Maria» dissi d’un tratto infrangendo il silenzio. Se solo avessi potuto chiudere gli occhi e fermare il dolore! Se solo non mi fossi sentita così sospesa, vuota, annacquata dalle lacrime che ci legano indissolubilmente alle cose e alle persone. Maria ci stava aspettando. Io stavo aspettando Maria e il suo pianto.
«Tra un po’. Vai a lavare il faccino. Non vorrai mica farti vedere così sconvolta da quella poveretta!» disse mamma sfiorandomi la guancia con una carezza.
«Maria lo sa come sto e io so come sta lei. Siamo uguali noi due. Uguali!».

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