Alzi la mano chi non è favorevole alla tutela dell’ambiente, della biodiversità o degli animali. Nessuno, ovviamente. Soprattutto in un’epoca, come la nostra, in cui la sensibilità green è sostanzialmente diventata un dogma. Niente zone grige né problematizzazioni di sorta. Il dibattito lo si faccia su altro.
Qui è «verde o barbarie», o sei dentro o sei un mostro, come un po’ tutto quello che svolazza nel pensiero occidentale da una ventina d’anni a questa parte, dai migranti alle minoranze di genere.
Scivola dunque sul velluto la prima votazione in Aula per inserire la tutela dell’ambiente in Costituzione: valanga di voti a favore, 224, e solo 23 astenuti, asserragliati nella riserva indiana dei «diversamente ecologisti». Astenuti, infatti, perché contrari non si può, nonostante le legittime perplessità piovute soprattutto dai banchi dei meloniani, preoccupati per le possibili ricadute della modifica sul comparto agricolo.
E allora, in questo clima di generale allineamento, val forse la pena far parlare l’avvocato del diavolo, piuttosto che la Greta di turno. Il principe delle cause perse ci direbbe sostanzialmente due cose: la prima è che forse dovremmo finirla di infilare disinvoltamente nella Carta qualunque cosa ci passi per la testa o incarni la moda del momento.
Negli anni dell’austerità più feroce, nei quali si plaudeva alla cura draconiana che precipitava la Grecia nella catastrofe umanitaria, si inserì il pareggio di bilancio nella Costituzione italiana tra gli applausi degli europeisti infagottati nei loden. Anche allora sembrava una conquista di civiltà di un’altezza inarrivabile. Oggi, dopo il mea culpa collettivo per quella folle stagione e soprattutto a seguito dei disastri pandemici, nessuno si sognerebbe di riproporre una simile modifica. Pena, la fantozziana crocifissione in sala mensa, nonché il precipizio allo 0,001% dei consensi. Ma intanto l’hanno fatta.
Ora, l’ambiente non è certo una questione da contabili invasati o da neoliberisti incalliti, ma lo spirito intransigente che anima l’iniziativa è più o meno lo stesso. Le ragioni sono molteplici e - siamo al secondo punto - prescindono dall’allarme globale lanciato, sia detto per inciso, anche da tutti coloro (governi, organizzazioni sovranazionali, grandi imprese) che fino a ieri hanno fatto il bagno nel petrolio come zio Paperone nei dollari del deposito. Piuttosto, la grande svolta verde è stato il taxi sui cui una serie di forze politiche - ormai completamente appiedate - sono saltate, incredule per aver finalmente qualcosa di nuovo da dire.
Ma siamo sicuri che questa rinnovata coscienza ecologica sia necessariamente un bene? A conti fatti, la transizione verde può assumere tante forme e molti orientamenti. Quella dominante, però, modello Thunberg, non promette nulla di buono, risolvendosi sostanzialmente in un commissariamento degli stili di vita del cittadino più che in una botta in testa ai grandi potentati economici. Per fare un esempio banale, la guerra aperta alle economiche vetture diesel in nome di un elettrico che «pesa» 20-30mila euro a macchina, ci dà la plastica (pardon...) rappresentazione di una rivoluzione per ricchi. Non certo di una battaglia di popolo. Non solo, ma al di là dalla sostenibilità economica, rimane poi il tema dei contenuti.
Cosa finirà sotto il cappello costituzionale della tutela dell’ambiente? Potrebbero certamente finirci virtuose pratiche di economia circolare, di riciclo e di riuso, davanti alle quali è bene togliersi il cappello. Ma quella modifica potrebbe anche essere la leva per «autorizzare» i desiderata di chi amerebbe deindustrializzare il Mezzogiorno, trasformandolo in un ClubMed a cielo aperto, tutto palme e cocktail, o di chi vorrebbe farci ingurgitare grilli e locuste perché la carne di manzo o di qualche altro quadrupede non è sostenibile. Non ci sarà nemmeno bisogno di dire che ce lo chiede l’Europa. Basterà cavarsela con la solita frase: è il futuro, bellezza. E, guarda un po’, è pure in Costituzione.