Domenica 07 Settembre 2025 | 17:47

Se le qualità di super-Mario oscurano la classe politica

 
Giuseppe De Tomaso

Reporter:

Giuseppe De Tomaso

Se le qualità di super-Mario oscurano la classe politica

Tra i presidenti del Consiglio non eletti solo pochissimi potevano essere ritenuti tecnici-tecnici. Quasi tutti possedevano una caratura politica di facile individuazione

Domenica 07 Febbraio 2021, 16:03

La Costituzione non prevede che il presidente del Consiglio debba essere per forza un parlamentare. Infatti, ammontano a una mezza dozzina i titolari di Palazzo Chigi sprovvisti del titolo di onorevole o senatore al momento del loro investitura al Quirinale: Carlo Azeglio Ciampi (1993), Lamberto Dini (1995), Giuliano Amato (2000), Matteo Renzi (2014), Giuseppe Conte (2018). Ciampi (1920-1996), anche dopo la sua esperienza alla guida del governo, non si presenterà mai a una contesa elettorale. Dini, invece, entrerà nell’agone politico, partecipando alle votazioni come fondatore di un partito politico (Rinnovamento italiano). Amato nel 2000 era provvisoriamente al di fuori del Parlamento, dove rientrerà nell’anno successivo. Di Renzi sappiamo: diventerà presidente del Consiglio dopo aver conquistato la segreteria del Pd, poi si candiderà a Palazzo Madama (eletto a Scandicci). Conte quasi tre anni fa fu la carta a sorpresa di Luigi Di Maio per il vertice dell’esecutivo, dove puntava anche Matteo Salvini. Abbiamo dimenticato il senatore Mario Monti che ottenne, sì, da Giorgio Napolitano l’incarico di allestire la squadra di governo, ma il presidente della Bocconi non proveniva dai ranghi degli eletti (era senatore in quanto alla vigilia della chiamata per il governo aveva ricevuto il laticlavio a vita dal Capo dello Stato).

Tra i presidenti del Consiglio non eletti solo pochissimi potevano essere ritenuti tecnici-tecnici. Quasi tutti possedevano una caratura politica di facile individuazione. In ogni caso, sia le presidenze affidate ai tecnici-tecnici sia quelle affidate ai tecnici-politici hanno costituito brevi parentesi, delimitate eccezioni nella storia dei governi nazionali.
La legislatura cominciata nel 2018 rischia, invece, di stabilire un record mondiale, nella storia del potere: potrebbe risultare l’unica legislatura i cui governi di riferimento siano stati guidati, dal primo all’ultimo giorno, da tecnici non eletti: prima Conte, ora Draghi (salvo colpi di scena, sgambetti dell’ultim’ora).
Il che, se non rappresenta uno strappo del dettato costituzionale, rappresenta una singolare anomalia nella prassi democratica. Un’intera legislatura con premier non eletti? Evidentemente qualcosa non funziona nella selezione della classe di governo. O i veti incrociati, da episodici, sono diventati in politica così strutturali da suggerire il ricorso al cosiddetto papa straniero. Oppure le competenze specifiche, le qualità professionali, in politica, si sono così rarefatte da rendere inevitabile l’ingaggio di esperti esterni. Tertium non datur. Il che dovrebbe indurre a qualche (preoccupante e preoccupata) riflessione.
Domanda. Qual è il livello del personale politico eletto se molti leader non hanno le doti, le qualità e lo status per ambire al timone della nave Italia?


Risposta. Dev’essere modesto, alla luce delle continue assunzioni, per Palazzo Chigi, di nomi estranei alle aule di Montecitorio e Palazzo Madama. È vero che quella italiana è una democrazia parlamentare, i cui governi devono solo garantirsi la maggioranza dei voti in Parlamento, e che la figura del capo del governo conta fino a un certo punto: l’importante è che lui abbia il sostegno di una coalizione maggioritaria, a prescindere dalla sua condizione di parlamentare o no. Ma anche oltre frontiera non scarseggiano le democrazie parlamentari: nessuna però affida lo scettro del governo a un non-deputato o a un non-senatore.
Intendiamoci. Meno male che Draghi c’è. Meno male che ci siano figure in grado di dare un significato positivo alla flessibilità sistemica, alla possibilità prevista dalla Costituzione di affidare la premiership a personalità estranee al ceto politico selezionato dalla popolazione. Ma, obiettivamente, questa opportunità straordinaria, ora evoluta a soluzione ordinaria, non va salutata come una revisione positiva per il nostro sistema politico. Altrimenti, di questo passo, spunterà qualcuno capace di convincere molta gente sull’inutilità del voto per i rappresentanti del popolo.


Batti e ribatti. Il confronto (impari e impietoso) tra Draghi e larga parte della classe politica, rimette al centro del tavolo il problema della qualità della nostra classe dirigente.
Del resto è quasi naturale. Se in un Paese come l’Italia l’unico mercato che funziona non è quello dei prodotti e dei servizi, bensì quello dei voti, c’è poco da sorprendersi per il fatto che il livello della rappresentanza elettiva sia sempre più scadente e che l’unico salvagente può arrivare dalla migliore società civile.
Vasti settori della società politica intendono la propria attività in questi due soli modi: fare più nomine possibili, anziché attivare più programmi credibili; esercitare più degli altri colleghi la funzione di intermediari tra risorse pubbliche e iniziative private. Ma in questo modo lievitano le consorterie, le camarille, non già le élite e i brain trust. Il che significa condannarsi a un destino sempre più amaro.
La produttività è tutto, non solo in economia. Anche in politica. Anche l’assistenza si può fare in modo produttivo e distruttivo. E se la classe politica non è in grado di esprimere un nome capace di dirigere, con margini profittevoli, l’orchestra di governo, significa che la crisi della rappresentanza ha raggiunto il suo stadio più basso. Anche per questo servono le riforme.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marchio e contenuto di questo sito sono di interesse storico ai sensi del D. Lgs 42/2004 (decreto Soprintendenza archivistica e Bibliografica Puglia 18 settembre 2020)

Editrice del Mezzogiorno srl - Partita IVA n. 08600270725 (Privacy Policy - Cookie Policy - - Dichiarazione di accessibilità)