Un tempo, quando a scuola la didattica era regina incontrastata, si facevano tradurre le favole del poeta Esopo. Da quelle si traevano esempi morali che sarebbero poi serviti, nell’età adulta, come ammaestramento di vita. Una, in particolare, narrava dei difetti e dei pregi che ciascun individuo si porta dietro durante il tragitto della propria esistenza. Esopo narrava che ogni essere umano porta con sé due bisacce immaginarie: una posta anteriormente, contenente i pregi; l’altra posteriormente, contenente i difetti. Ebbene, posizionati in tal modo, siamo portati ad osservare facilmente i talenti che teniamo davanti ma mai i difetti che pure ci portiamo alle spalle. Da questa storia si trae la morale che ci piace menar vanto solo di quello che ci distingue in positivo dimenticando però quello che ci difetta.
La morte di Emilio Fede e la valanga di commenti apparsa sui social mi ha riportato alla mente quella lezione, soprattutto quando, con gran sussiego e saccenteria, acredine e pregiudizio, i soliti ignoti ne hanno sminuito meriti e carriera, con espressioni a volte vomitevoli. Quel che ha mosso i commenti più negativi fino al limite dell’oltraggio, è stato ovviamente il periodo professionale durante il quale Emilio Fede è stato direttore di uno dei Tg del gruppo Mediaset di Silvio Berlusconi riversando quindi su di lui l’idiosincrasia, i veleni, le antipatie e l’odio che quegli anonimi cittadini nutrivano nei confronti del Cavaliere. Un riflesso ed una trasposizione del rancore politico da un personaggio all’altro, che neanche la morte riesce ad cancellare!
Nessuna concessione alla pietas, ossia al sentimento di chi ha compassione e partecipa al dolore degli altri, manifesta il cordoglio che si deve ad un defunto. Parce sepulto dicevano gli antichi, non parlate dei morti.
Al contrario, improvvisati agiografi del defunto, perlopiù ignoranti travestiti da storici, hanno sintetizzato e condensato, con accenti malevoli, la vita e l’opera professionale di un grande giornalista, limitandola al solo periodo in cui fu egli fu direttore del Tg4. Eppure Emilio Fede fu per ben venticinque anni uno dei giornalisti di punta della Rai, inviato speciale, direttore del Tg1, curatore di inchieste che seppero destare unanime consenso. In più, lanciò tanti altri giornalisti divenuti poi anch’essi noti attraverso il piccolo schermo.
Insomma: stiamo parlando di un fior fior di professionista nel tempo in cui c’erano in giro giornalisti del calibro di Indro Montanelli, Piero Ostellino, Giovanni Spadolini, Sergio Zavoli, Eugenio Scalfari, Andrea Barbato, Tito Stagno, Umberto Eco, Giorgio Bocca, Enzo Biagi, tanto per fare alcuni nomi. Eclettico nell’esercizio della professione, Fede condusse anche rubriche di intrattenimento televisivo, oltre che importanti eventi di cronaca, politici e mondani. Ora, un uomo del genere non merita l’etichetta di «servo sciocco» di qualcuno né può veder sminuita la propria storia professionale solo perché, negli ultimi tempi, si era legato alla parabola politica del fondatore di Forza Italia, condividendone le sorti. Forse lo ha fatto con eccessiva enfasi, con modalità accondiscendente, ma non è mai stato circondato da giganti che non avessero, anch’essi, mallevadori politici nei vari partiti di riferimento di mamma Rai.
Bon vivant nella vita privata, Fede ha conosciuto anche periodi di appannamento dell’immagine e bisogno di denaro perché amante del gioco e frequentatore di casinò. E tuttavia sono, queste, umane debolezze che in nulla inficiano la statura culturale e professionale del personaggio, anzi per alcuni versi ce lo rendono più umano. Farne pertanto strame al riparo dell’anonimato di una tastiera, vomitargli addosso il rancore sociale, le frustrazioni e le antipatie, rappresenta solo un vilipendio post mortem. Se tutto questo avesse una radice razionale, un fondo sociologico, occorrerebbe chiedersi se tali manifestazioni non siano il riflesso di una società che, avendo ottenuto dai mezzi tecnologici la possibilità di interloquire con tutti, ritiene di potersi anche parificare ed ergersi a giudice supremo di chiunque.
Siamo insomma alla perdita di ogni misura e di ogni consapevolezza dei propri limiti, all’improntitudine di mistificare quello che realmente ciascuno di noi conta nel consesso sociale, di quali siano realmente i meriti acquisiti, per poter scrivere sentenze inappellabili. Insomma siamo «sempre e comunque contro chiunque»! Se questo è il brodo di coltura nel quale oggi si forma e diffonde l’opinione pubblica, ben si comprende il declino di una Nazione, la nostra, dove un popolo di millantatori non guarderà mai nella bisaccia che porta dietro le spalle, ove è anche collocato come il proprio avvenire.