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Da mister euro la spinta per una nuova classe dirigente

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

Crisi politica, Mario Draghi accetta con riserva incarico di formare nuovo Governo

Draghi è la persona giusta, forse l’unica, capace di promuovere una rivoluzione culturale di questo tipo, tesa a innovare soprattutto il modo di fare governo e amministrazione

Giovedì 04 Febbraio 2021, 14:24

Mario Draghi ha salvato l’euro e l’Europa. Riuscirà a salvare l’Italia? Sul presidente del Consiglio incaricato si sono accese più speranze che su Padre Pio (1887-1968), ma il diretto interessato è il primo a sapere che politica ed economia non sono materie aduse a fare miracoli. Se si produce, si cresce e si progredisce. Se non si produce, addio sogni di gloria. E siccome, da parecchi lustri, la produttività del Belpaese segna il passo, appare evidente come il tentativo di risanare l’Italia si rivelerà, anche per Draghi, più difficile e complicato del tentativo di salvaguardare l’euro.

Intendiamoci. I simboli sono fondamentali. Dappertutto. Il brand Draghi (vedi il plauso dei mercati già ieri mattina) è una garanzia di serietà e rigore per governanti, risparmiatori e investitori (specie stranieri), il che potrà facilitare la collocazione dei titoli di Stato made in Italy sui mercati internazionali. Ma se sull’Agenda Draghi si getteranno a capofitto, per stracciarla, i capi e capetti della partitocrazia smaniosi di accontentare le proprie clientele di riferimento, non ci sarà verso di riaddrizzare la baracca. La puntata successiva vedrà in pista, a Roma, gli occhiuti commissari della troika (Bce, Fmi, Commissione europea), come è prassi per le nazioni incapaci di amministrarsi secondo gli elementari princìpi dell’economia.

Chissà se la postazione di Palazzo Chigi sia la sede migliore per tutelare i conti pubblici italiani. Il mestiere di presidente del Consiglio è il più insicuro del pianeta, a differenza della carica di presidente della Repubblica, che è la più stabile dell’universo. Dal Quirinale, o attraverso la moral suasion riconosciuta ai suoi titolari, o attraverso il rinvio (alle Camere) dei provvedimenti sprovvisti di copertura finanziaria, si può operare a beneficio del rigore economico molto più efficacemente che dalle altre auguste dimore istituzionali. Ma se la Patria (in questo caso Mattarella), chiama, nessuno può tirarsi indietro, soprattutto se il prescelto viene invocato come la Madonna.

Staremo a vedere se l’approdo a Palazzo Chigi agevolerà, tra un anno, o meno il successivo trasloco di Draghi sul Colle più prestigioso della Capitale. Il cammino di ogni governo è costellato di trappole a ogni angolo di strada. Persino le coalizioni più ampie, quelle che sulla carta garantiscono un percorso meno accidentato, all’improvviso possono spaccarsi in tante rissose comitive. Nella storia nazionale, a partire dal 1945, nessun capo di governo ha mai potuto giovarsi di un trattamento di riguardo. E pure davanti a un premier del calibro di Draghi, è da presumere, non verranno stesi luccicanti tappeti rossi.

Servirebbe una squadra di fuoriclasse attorno a Draghi. Gliela lasceranno formare? Servirebbe una vasta maggioranza parlamentare: arriveranno i numeri necessari? Servirebbe un rigoroso programma per la ripresa dopo la pandemia: ci saranno i consensi dei partiti nelle aule parlamentari? Servirebbe un pacchetto di riforme tese a velocizzare le decisioni e a sburocratizzare l’attività delle imprese e le incombenze delle famiglie: si troveranno i voti indispensabili per ammodernare il Sistema Italia? Servirebbe un approccio razionale per le iniziative da finanziare con il Recovery Fund e servirebbero pure i quattrini del Mes: si troveranno gli accordi in Camera e Senato?

Lo sviluppo non è frutto dei capitali, ma del trinomio intelligenza, diritto, buone istituzioni. In giro non ve n’è particolare abbondanza, come dimostra la legislazione degli ultimi decenni. Bisognerebbe sfaldare il blocco politico-amministrativo - che, dopo il vecchio blocco agrario, da tempo paralizza l’Italia - per facilitare il cammino del modello imprenditoriale, dell’industria che non nasce dalle sovvenzioni da parte del feudalesimo burocratico, bensì dall’estro della gente e dal valore dell’amministrazione onesta.

Il debito cattivo contro cui, appena può, si scaglia Draghi, è la naturale conseguenza dell’involuzione, della degenerazione del ceto politico italiano, che da classe dirigente si è trasformata in consorteria di intermediari. E quando viene meno la funzione originaria della rappresentanza, c’è poco da illudersi: se ti va bene non cresci, se ti va male precipiti.

Ecco. La soluzione Draghi, se supererà lo scoglio del voto di fiducia, oltre che cercare di rimettere in ordine i conti pubblici alla cui devastazione ha inferto un colpo micidiale la pandemia, dovrebbe costituire la spinta per selezionare la più moderna classe dirigente del Paese, per congedare le consorterie degli intermediari. Il termine governo dei migliori è pretenzioso e suggestivamente illuministico. Ma una nazione non può progredire senza la valorizzazione del fattore intelligenza, l’unica vera grande risorsa dell’uomo. E l’Italia non può fare a meno di trascurare, di ignorare i suoi cervelli più dinamici, spesso gratificati solo oltre frontiera.

L’Italia è il Paese della zona Cesarini, del gol all’ultimo minuto, del riscatto alla vigilia del disastro. Draghi è la persona giusta, forse l’unica, capace di promuovere una rivoluzione culturale di questo tipo, tesa a innovare soprattutto il modo di fare governo e amministrazione. Sì, perché il deficit culturale dello Stivale, soprattutto in campo finanziario, è assai più grave del debito pubblico, che non spaventerebbe nessuno, anche all’estero, se la Penisola dovesse rimettersi a crescere grazie all’ingegno delle sue energie più intraprendenti.

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