A parole si litiga sui programmi, nei fatti si litiga sulle poltrone. Anzi, più vengono sottolineate, enfatizzate, le divergenze sui programmi, più vengono sottaciuti gli scontri sui nomi. Ovviamente non fa eccezione neppure l’ultima crisi di governo. Stringi stringi, la questione rimane sempre quella: chi deve governare, non già come e per cosa bisogna governare.
La convocazione di squadre di esperti per stilare un cronoprogramma impegnativo e condiviso doveva servire a dissolvere tutti i sospetti sia sull’origine della rottura di governo sia sui criteri per la ricucitura della coalizione. Doveva. In realtà, neanche l’attovagliamento attorno al tavolo tecnico è in grado di silenziare voci e spifferi sulla vera battaglia in corso: i nominativi della formazione ministeriale del prossimo esecutivo.
Del resto non sarebbe una novità, e, per certi versi, neanche un’anomalìa. Quanti governi hanno corso il rischio di abortire prima di nascere solo perché, dopo aver concordato l’agenda programmatica, leader e capicorrente non riuscivano a trovare la quadra sui cognomi di ministri e sottosegretari, tanto è vero che, una volta, si dovette ricorrere all’arte di un profondo conoscitore (Massimiliano Cencelli) del peso specifico di ogni incarico governativo e sottogovernativo per cercare un compromesso tra partiti, gruppi, fazioni e drappelli vari? Non si contano.
Eppure, in molte circostanze, si era verificata l’unanimità di vedute sui progetti da realizzare. Niente da fare. In ogni crisi di governo, la fase più delicata comincia un minuto dopo la firma dell’accordo da parte di tutti i rappresentanti delle forze di maggioranza. Non appena si sigla il patto tra i soci del governo, le coronarie di ministri e aspiranti tali cominciano a fibrillare a più non posso. E fino a quando il presidente del Consiglio non si presenta davanti alle telecamere per leggere la lista dei nuovi ministri, può accadere di tutto, compreso che salti l’intero ambaradan faticosamente costruito. Ministri trombati all’ultimo minuto. Segretari di partito assediati più di quanto capitò ai troiani a opera dei greci. Colloqui al Quirinale che si protraggono più di una seduta di laurea con venti neodottori.
La crisi attuale sta perfezionando la lista dei primati. Infatti. Il braccio di ferro sui prossimi ministri e sullo stesso futuro titolare di Palazzo Chigi è scattato con largo anticipo rispetto alle tradizionali tabelle di marcia. Non a caso i giornali sono pieni di indiscrezioni e interviste che riportano veti e controveti sui nomi più in vista o sui possibili cavalieri per la carovana di governo. Persino il presidente del Consiglio in carica non viene risparmiato dal gioco al massacro scatenatosi su alcune caselle chiave dell’esecutivo. E pensare che il presidente della Camera, Roberto Fico, è stato incaricato da Sergio Mattarella di esplorare innanzitutto la fattibilità del tris di Conte. Ma, si sa, starà riflettendo Conte, una volta ceduto ad altri il possesso del mazzo delle carte, la partita non è più la stessa.
Diciamo che oggi si fronteggiano due schieramenti, a tratti trasversali: i sostenitori di Giuseppe Conte (capitanati da Zingaretti, Di Maio e Speranza) e quelli di Mario Draghi (guidati da Renzi). La sorte degli aspiranti ministri dipende, si capisce, da come finirà questa sfida involontaria, in verità mai accettata dai due protagonisti. Ad esempio, non è dato sapere se l’ex presidente della Bce muoia dalla voglia di insediarsi a Palazzo Chigi in uno scenario politico che potrebbe rivelarsi più rissoso di un incontro tra ultrà allo stadio. La logica suggerirebbe un interesse, da parte di Draghi, per la magistratura quirinalizia, più stabile e soprattutto meno esposta ai ricatti e ai capricci di rivali e alleati. Ma,è notorio, quando parte il pressing per indurre una personalità esterna ad accettare un incarico, non si procede molto per il sottile, specie se si intravvedono vantaggi indiretti e tornaconti diretti.
Non sappiamo dove approderà la crisi aperta da Matteo Renzi. Sappiamo solo che questa crisi avrebbe dovuto suggerire all’intera classe dirigente di riprendere il filo delle riforme per assicurare stabilità e governabilità al Paese. Viceversa, l’impressione prevalente è che si stiano creando le premesse, anche legislative, per un ulteriore passo verso l’ingovernabilità strutturale, a tempo indeterminato, vedi il ritorno in auge del modello elettorale proporzionale, che in Italia significa via libera al mercato delle formule, agli scambi osceni degli incarichi all’indomani di ogni votazione. Non è, perciò, da escludere, né questa profezia può essere archiviata come facile fantapolitica letteraria, che la frantumazione ulteriore della rappresentanza parlamentare possa partorire un sistema fondato sulla crisi permanente, intervallata solo da qualche breve periodo di governabilità ordinaria. In tal caso, amen.
Ecco perché nel Recovery Plan bisognerebbe inserire, come allegato ai progetti infrastrutturali, un piano ad hoc per curare la crisi sistemica (giuridica prima che politica) della Penisola. Ma la battaglia sui nomi dei prossimi ministri, iniziata addirittura con largo anticipo rispetto al passato, va in senso contrario e non induce all’ottimismo.
Intendiamoci. Avveniva così pure nei decenni scorsi. Ma, stavolta, forse anche a causa del succulento Recovery, la lotta per le poltrone si preannuncia come la più aspra di sempre. E chissà se si concluderà dopo il giuramento della futura scuderia di governo.