Fino a poco tempo fa il successo del Sì al referendum per la riduzione dei parlamentari pareva più scontato del risorgere del sole. Adesso, quello che pareva un pronostico pre-elettorale a senso unico, senza problemi di ratifica, rischia di trasformarsi nel ribaltone elettorale più clamoroso della storia repubblicana. E ciò per un pugno di ragioni, a cominciare dall’insidia connaturata a ogni appuntamento referendario: non si vota mai secondo una logica binaria (sì o no al semplice quesito sottoposto al verdetto degli elettori), ma quasi sempre si vota in base a reazioni e considerazioni politiche d’altra natura, che c’entrano poco o punto con la domanda della consultazione popolare.
Il che si è verificato e si verifica puntualmente non soltanto in Italia. In Italia, per riferirci al recente passato, è notorio come in occasione del referendum costituzionale del dicembre 2016 la maggior parte degli elettori abbia votato non tanto sul contenuto della riforma proposta da Matteo Renzi quanto sulla figura dell’allora presidente del Consiglio. Idem accadde nel referendum inglese sulla Brexit, allorché si votò più per impedire agli europei di entrare in Gran Bretagna che per ordinare al governo Cameron di uscire dall’Unione Europea.
Oggi, per tornare all’imminente referendum sul taglio dei parlamentari, quasi tutto il ceto politico, per ovvi motivi di tenuta e sopravvivenza, è orientato, chi a voce alta chi a voce bassa, a dire No alla norma approvata dal Parlamento. E siccome, in politica, il più delle volte le mobilitazioni scattano su sollecitazioni dall’alto più da pulsioni dal basso, appare evidente come l’abituale grancassa del Sì alla riduzione dei «lorsignori» appaia adesso più afona di un’intera famiglia colpita dal mal di gola. Lo stesso Movimento pentastellato artefice del progetto di «taglio della Casta» non è più scatenato e compatto, come prima, nel battage mediatico per la rasoiata al numero dei parlamentari.
Del resto, l’istinto di conservazione è di casa pure tra senatori e deputati di casacca grillina. Chi è così audace e disinteressato da battersi, senza tentennamenti, per una misura che potrebbe compromettere al 99%, o al 101%, il suo ritorno tra i banchi di Palazzo Madama e di Montecitorio, con relativa perdita di status, indennità e benefìci vari? Infatti. Il Fronte del Sì, tra senatori e deputati, fa fatica a trovare megafoni i tv e penne sui giornali. Se non fosse per alcuni opinionisti e pensatori esterni ai Palazzi della politica, non ci sarebbe pressoché nessuno ad perorare la causa della sforbiciata ai due rami del Parlamento.
Eppure l’esigenza della riduzione della rappresentanza bicamerale non è nata ieri. Tutte le commissioni per le riforme l’avevano auspicata e formalizzata nero su bianco. È vero, la riforma su cui a breve si pronunceranno gli italiani, non è il massimo della linearità, visto che presenta problemi legati alla tutela territoriale, ma ci sarebbe tutto il tempo per rimediare attraverso una buona legge elettorale. Invece, è assai insistente il tam tam che associa il taglio dei parlamentari a un pericoloso salto nel vuoto, come se fosse in pericolo la stessa idea di democrazia.
Eppure, da tempo immemorabile, un po’ tutti, almeno a parole, convengono sul fatto che il Belpaese è afflitto dal doping dell’intermediazione politica; che la qualità della classe politica lascia molto a desiderare; che l’eccesso di legislatori produce un eccesso di legislazione; che l’eccesso di legislazione spesso si traduce in un eccesso di pianificazione; che l’eccesso di legislatori spesso produce il fenomeno contrario, ossia l’accentramento dei poteri nelle mani di chi è al governo. E ci fermiamo qui. E però, quando arriva il momento di dare una soluzione concreta ai problemi testé indicati, spuntano in automatico i ripensamenti, i dubbi, le retromarce, i discorsi improntati alla «massima preoccupazione».
Tra meno di un mese si voterà in sette regioni. Quasi tutti si dicono delusi, in Italia, dall’esperienza delle Regioni, che oltre ad aver contribuito a concimare il debito pubblico, hanno prodotto un tasso di conflittualità con lo Stato centrale, che manco l’allenatore Antonio Conte ha saputo fare altrettanto con le scriteriate e sfortunate società pallonare che lo hanno ingaggiato. Ma se si andasse a referendum per l’eliminazione delle Regioni, siate certi che il Fronte del No alla loro soppressione prevarrebbe alla grande, perché la persistenza degli aggregati, direbbe Vilfredo Pareto (1848-1923), la forza degli interessi costituiti possiede una capacità penetrativa, un fascino seduttivo degno di un Rodolfo Valentino (1895-1926) o di una Sophia Loren.
Del resto, la refrattarietà degli italiani alle riforme costituzionali è proverbiale. Basti pensare che la monarchia, complice del fascismo, anziché essere licenziata a furor di popolo per manifesta indifferenza alla libertà soppressa per 20 anni, per poco non batté la repubblica nel referendum del 1946. Una refrattarietà alle riforme (da parte degli italiani) evidentemente figlia anche della «persuasione occulta» alimentata dalle Caste del momento.
Conclusione. Anche il referendum sul taglio di parlamentari non sfuggirà all’ambiguità che caratterizza ogni consultazione di tal genere: la votazione prescinde dal merito del quesito. Di conseguenza, oggi le quotazioni del No alla riforma appaiono in netto rialzo. La qual cosa, se si traducesse in vittoria nell’urna, produrrebbe l’effetto forse meno preventivato: l’oscuramento degli esiti delle votazioni regionali, che a questo punto provocherebbero minori contraccolpi (del previsto) sul quadro di governo nazionale. Vuoi mettere il possibile spettacolare colpo di scena della rivincita elettorale dei due Palazzi rispetto all’ordinario rinnovo dei parlamentini territoriali? Non c’è partita. Salvo un piccolo grande particolare: la clamorosa delegittimazione del parlamento in carica, condannato dalla giuria popolare. Sì, perché sarebbe questo il lascito di un’eventuale vittoria del No alla potatura parlamentare: le Camere si salvano e si (auto)affondano in simultanea. Si salvano perché conservano i posti a sedere per il futuro. Si (auto)affondano perché sconfessano una riforma costituzionale confermata dai loro componenti in quattro votazioni parlamentari.