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La Mascherina (s)maschera un paese iper-normato

 
 Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

MascherineUna questione non ancora risolta

Come si possa pensare di rimediare alla penuria di mascherine riproponendo in sostanza le grida manzoniane o scagliadosi, come ha fatto il commissario Domenico Arcuri, contro i «liberisti da divano», rimane francamente un mistero

Martedì 05 Maggio 2020, 14:59

Per chi, come diceva don Luigi Sturzo (1871-1959), è convinto che lo stato non sia in grado di gestire nemmemo la bottega di un barbiere, l’incapacità dimostrata dalle autorità pubbliche nel reperire le mascherine, non costituisce una novità, o una sorpresa. Non già perché i rappresentanti istituzionali all’uopo delegati siano stati o siano una comitiva di asini, ma perché solo un’anima pia, un inguaribile sognatore o un dogmatico pianificatore possono immaginare di procurarsi un prodotto ignorando o aggirando la dinamica dei prezzi. Per chi non ha dimestichezza con la teoria dei prezzi non è necessario sfogliare un testo di economia. È sufficiente dare una rilettura al capitolo dei Promessi Sposi sull’assalto della folla ai forni a caccia di pane. In quelle pagine il grande Alessandro Manzoni (1785-1873) spiega meglio di un cattedratico la stretta correlazione tra scarsità e/o abbondanza di un bene e il suo relativo costo finale, una volta approdato sul mercato. Né può giovare alla causa del contenimento dei prezzi il ricorso al calmiere da parte del potere politico. Dall’epoca dell’imperatore Diocleziano (244-313), che fu il primo big di governo a sfidare la legge economica della domanda e dell’offerta, nessun tentativo teso ad abbassare, per legge, i prezzi di alcuni prodotti, ha mai centrato l’obiettivo. 

Anzi, è sempre accaduto il contrario: la merce è sparita dalle vetrine e dalle bancarelle, e quella rimasta ha provocato più code di una finale di Champions, come testimoniano le immagini delle lughe file ai negozi nei Paesi dell’ex impero sovietico. Viceversa, la merce facilmente disponibile non scompariva mai dai punti vendita del mercato nero, piazzata ovviamente a prezzi ultrastellari.

Ora. Come si possa pensare di rimediare alla penuria di mascherine riproponendo in sostanza le grida manzoniane o scagliadosi, come ha fatto il commissario Domenico Arcuri, contro i «liberisti da divano», rimane francamente un mistero, oltre a destare più di una preoccupazione.

Il prezzo è un’informazione sulla disponibilità o meno di un prodotto. Il prezzo è la terza «p» fondamentale per procedere al calcolo economico: le altre due sono la proprietà e il profitto. Lo stato, per natura, non si giova dei presupposti testé indicati. Di conseguenza lo stato è sostanzialmente negato al calcolo economico. Certo, lo stato può agire di testa sua, imponendo il suo punto di vista. In tal caso, però, com’è avvenuto per le mascherine, deve provvedere lui stesso a risarcire i mancati guadagni causati dal prezzo politico di questo materiale anti-virus. Il che presuppone che qualcun altro (ossia i contribuenti) pagherà o, il discorso non cambia, che il debito pubblico salirà ancora.

Insomma, è vero che la cultura finanziaria in Italia è quella che è, assai modesta, tanto è vero che gli spiriti più avveduti suggeriscono un massiccio programma di alfabetizzazione ad hoc, onde evitare che il popolo dei risparmiatori e degli investitori si faccia irretire come il pesce dall’amo. Ma anche la più semplice cultura economica non annovera un esercito di conoscitori, non solo nell’opinione pubblica meno acculturata, ma pure nei santuari teoricamente più attrezzati.

Il che la dice lunga sull’affidabilità del potere specie quando si ritrova a prendere decisioni che impattano sulla vita dei cittadini. Se persino, sturzianamente parlando e parafrasando, la produzione delle mascherine viene trasformata un problema (né, ripetiamo, poteva essere diversamente anche a causa dei mille lacci burocratici), figuriamoci quali effetti in-intenzionali provocherebbe il ritorno in grande stile dello stato padrone o dello stato imprenditore che, d’improvviso, chissà perché, dovrebbe possedere tutte le nozioni e disporre di tutte le condizioni indispensabili per effettuare il «suo» calcolo economico. Facciamo prima (sarebbe più onesto) a dire che lo Stato padrone sprecherebbe l’ennesima montagna di quattrini, ma che a noi va bene lo stesso così. Così nessuno si sentirà in dovere di escogitare le spiegazioni, le motivazioni più improbabili per giustificare la resurrezione dello stato factotum.

Altro che ritorno delle Partecipazioni statali, come qualche economista propone. Ritornare all’industria pubblica come linea guida della ripresa post-virus significherebbe riportare indietro le lancette dell’orologio, significherebbe affidare alla classe politica il potere di decidere su temi, settori, prodotti e problemi specifici di cui lei è del tutto a digiuno, come tutti quelli che non rischiano e non sbattono la testa tutti i giorni in quel meccanismo di scoperta e di conoscenza che è la concorrenza, la competizione economica.

L’Italia è nuovamente a un bivio. Può uscire più forte di prima se non mette i bastoni tra le ruote a chi ha voglia di fare e di produrre. Può uscire più debole di un Paese sudamericano se lo stato, cioè il ceto politico, si mette a cincischiare su ogni cosa, pretendendo addirittura di sapere dove evolverà il mondo post-virus.

E poi. Magari ci fosse un unico stato sulla Penisola. Ormai se n’è perso il conto. Le regioni contro il governo. Il governo contro le regioni. I comuni contro le regioni. Le regioni contro i comuni. All’infinito. Ognuno fa di testa sua, grazie anche a un’inflazione normativa (e ora amministrativa) più vertiginosa di un labirinto, dove solo la discrezionalità dei detentori di macro o micropoteri regna indisturbata.

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