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Saper spendere rimane la questione principale

 
Gianfranco Summo

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Gianfranco Summo

Il premier Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Il Piano Sud 2030 annunciato dal premier Giuseppe Conte prevede 123 miliardi, di cui 21 da spendere entro il 2022

Sabato 15 Febbraio 2020, 15:30

Una delle ragioni per le quali il Mezzogiorno è un tema sempre più marginale in ogni agenda politica è l’abuso che se ne è fatto per decenni. Abuso dialettico, quando è servito per coagulare consensi sociali e politici. Abuso economico, quando i danari stanziati (ordinari e straordinari) sono stati usati per opere inutili. Abuso propriamente detto, quando le due fattispecie precedenti sono sfociate in dolorose inchieste giudiziarie. Con queste eredità è difficile, ora, teorizzare il rilancio del Sud: ad avallare con entusiasmo si rischia l’ennesima delusione se non un’accusa postuma di complicità; la prudenza di giudizio, invece, potrebbe essere fraintesa con uno scetticismo disfattista e dare un alibi a chi accusa i meridionali di essere gli artefici del proprio male.

Dunque, come esprimersi verso il Piano Sud 2030 annunciato dal premier (meridionale) Giuseppe Conte? Intanto non gli si possono rimproverare promesse non mantenute, il suo ruolo politico e istituzionale da esordiente lo tengono al riparo almeno da queste accuse. Mette sul tavolo 123 miliardi, di cui 21 da spendere entro il 2022 e parla esplicitamente di fondi interni. «Noi - dice Conte - le risorse le abbiamo. Interne, più quelle europee di cui ci possiamo giovare. Quello che ci è mancato fino ad ora è la capacità di spenderle bene. Questi miliardi di cui parliamo ci sono e abbiamo individuato le criticità che non ci hanno permesso di spenderli».
Da questa affermazione è ragionevole dedurre che non siamo di fronte a un piano basato su risorse straordinarie ma a un impegno più pressante per un utilizzo rapido e virtuoso di danari già programmati sui bilanci pubblici. Niente di male, chiaramente. Ma intanto c’è il rischio che da domani qualunque intervento di ordinaria amministrazione venga veicolato come strumento straordinario. Un film già visto, peraltro.
Così come sanno di già visto le presentazioni con le slide e perfino gli scivoloni formali (come l’uso di una foto del golfo di Trieste per presentare il piano per il Sud).

Allora la novità si annida in altre parole della presentazione che il premier e due ministri hanno mandato in onda dalla Calabria (proprio da quella Calabria appena espugnata dal centrodestra a trazione leghista): parole che rimandano al centralismo statale che suona come una bocciatura sonora delle autonomie locali e regionali già al centro del dibattito politico degli ultimi anni. Leggere di un «nuovo metodo improntato sul rafforzamento del presidio centrale, attraverso l'istituzione di Comitati di indirizzo e un Piano Sviluppo e Coesione (PSC) per ciascuna missione, sulla cooperazione rafforzata tra amministrazioni centrali e locali, sull'attivazione dei centri di competenza nazionale e il ricorso a centrali di committenza e stazioni appaltanti (nazionali e locali)» sembra più che altro un modo paludato per spiegare che d’ora in poi i soldi statali per gli investimenti nel Mezzogiorno resteranno sotto la responsabilità e gestione dello Stato.

È, allora, questa la vera chiave di lettura sulla quale esercitarsi: la bocciatura delle autonomie e, dunque, della classe dirigente che nelle regioni del Sud hanno declinato in chiave locale la gestione delle risorse nazionali. Se non è un ritorno alla Cassa per il Mezzogiorno nella forma, rischia di diventarlo nella sostanza. Il tempo dirà se con maggior successo.

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