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Una bomba a orologeria sul futuro delle camere

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

Una bomba a orologeria sul futuro delle camere

Presi singolarmente, i parlamentari non hanno molta voce in capitolo nelle scelte del loro Principale. Ma presi in gruppo possono fare paura persino al leader più carismatico e padronale

Martedì 09 Luglio 2019, 15:39

Il 90 per cento dei parlamentari non vorrebbe votare mai. Solo in pochi, infatti, avrebbero la garanzia assoluta della rielezione. La stragrande maggioranza di deputati e senatori si prepara all’appuntamento elettorale con lo stesso stato d’animo (depresso) con cui i tacchini attendono il Natale. Figuriamoci se, poi, si dovessero creare le condizioni per lo scioglimento anticipato delle Camere. I peones, cioè i parlamentari semplici, scatenerebbero il putiferio pur di sventare la minaccia, prospettando sotto traccia transumanze organizzate e cambi individuali di casacca. Insomma, il Parlamento non assicurerà il posto fisso anelato dai personaggi di Checco Zalone, ma di certo, per almeno cinque anni, assicura privilegi sconosciuti altrove.

Comprensibile, perciò, la ritrosia dei soldati semplici di Palazzo Madama e Montecitorio ad accettare passivamente lo «sciogliete le righe», o il «tutti a casa», che potrebbe essere richiesto, improvvisamente, dall’uomo forte del momento.
Non si contano le legislature tenute in vita, in passato, con la respirazione bocca a bocca a opera delle truppe parlamentari timorose di non dover ritornare a Roma in caso di votazioni immediate. Presi singolarmente, i parlamentari non hanno molta voce in capitolo nelle scelte del loro Principale. Ma presi in gruppo possono fare paura persino al leader più carismatico e padronale.

Ecco perché molti capi preferiscono non spingere sull’acceleratore del voto. Temono che questa manovra possa loro sfuggire di mano e che alla fine debbano restare, e scottarsi, col cerino acceso in mano.
Ma c’è un tema, finora sottostimato, che potrebbe invece scompaginare i piani di tutti coloro che sono impegnati a salvaguardare la legislatura in corso: l’autonomia differenziata chiesta con forza da tre Regioni del Nord (Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna).

Qui non si scappa. O il Sud cede al Nord e sta zitto. O il M5S cede alla Lega e sta zitto. O l’opinione pubblica del Sud cede ai testimonial del Nord e sta zitta. Ma se, poco poco, qualcuno rialzasse la testa e, conti alla mano, cominciasse a smantellare le pretese del Lombardo-Veneto e della gregaria Emilia-Romagna, il gioco compromissorio potrebbe essere smascherato in un amen, con buona pace dei guardiani della legislatura in corso.

Il primo a saperlo è Luigi Di Maio, capo dei pentastellati. È vero che, prima del battesimo del governo, Di Maio ha sottoscritto con il suo equipollente Matteo Salvini l’impegno programmatico a varare il regionalismo differenziato. Ma Di Maio è consapevole che se l’autonomia dovesse arrivare al traguardo, la tegola più dolorosa cadrebbe sullo stato maggiore grillino, che ha nel Mezzogiorno il suo serbatoio elettorale più cospicuo.

Il secondo a saperlo è Matteo Salvini. Il Capitano leghista sa e comprende che il suo parigrado Di Maio non potrebbe concedergli ciò che vuole il presidente veneto Luca Zaia. Sa, pure, il conducente del Carroccio, che l’autonomia differenziata non costituisce per lui un comodo biglietto da visita durante le sue sempre più frequenti puntate nel Meridione. Ma, nonostante queste sue riserve, Salvini sa che il pressing dei presidenti leghisti Zaia e Fontana, sostenuti dal presidente emiliano Bonaccini (Pd), è così incalzante che persino lui, sceicco di una Lega protesa al 40 per cento di voti, si vede costretto a non girarsi dall’altro lato e a battere con lena il ferro caldo dell’autonomia.

Si dice: ma l’Italia è terra di inciuci e compromissioni, prima o poi anche sull’autonomia si raggiungerà l’accordo. Può essere. Non a caso, nonostante l’ennesimo rinvio, dopo il vertice di ieri, si sono ascoltate parole d’ottimismo. Ma la materia è così dirompente da rendere complicata anche l’intesa più facile e lineare. E siccome, nelle regioni del Nord, i falchi hanno ridotto al silenzio le colombe, l’ipotesi di un patto di ferro (nazionale) in zona Cesarini appare più improbabile di un matrimonio tra Donald Trump e Angela Merkel.

Il M5S è in regresso rispetto alla Lega trascinata da Salvini. Se dovesse mollare il Sud, dove il Movimento ha attutito la botta del voto europeo, Di Maio scenderebbe vieppiù di peso (elettorale), il che significherebbe dover cedere il timone ad Alessandro Di Battista o a Roberto Fico.

Ecco perché - nonostante tutto, nonostante la non belligeranza delle Rgioni meridionbali, non sarà una passeggiata, per la Lega, portare a casa il trofeo dell’autonomia. E se non sarà una scampagnata, l’unica cosa che potrà fare Salvini sarà quella di togliere l’ultimo sostegno alla tenuta di Camera e Senato, e poi accada quel che deve accadere.

Sorprende in questa vigilia autonomistica l’indifferenza delle Regioni del Sud che, a nostro avviso, dovrebbero sottoscrivere una petizione da inviare al Quirinale in difesa dell’unità nazionale in pericolo e a sostegno di una più equa distribuzione della spesa pubblica. Ma quando la politica si riduce a esercizi di calcolo o a valutazioni di convenienze di carriera, non c’è molto da discutere o da proporre. Anche se, continuiamo a pensare, il tema dell’autonomia differenziata è troppo dirompente per essere affrontato con la spensieratezza di una gita domenicale al mare. Rimane una bomba a orologeria. Prima o poi spunterà qualche inghippo, qualche dissonanza di rilievo che potrebbe far saltare il tavolo e rimandare tutti alle elezioni (anticipate). E a questo punto, un voto sull’autonomia differenziata non sarebbe una iattura, perché costringerebbe tutti a uscire allo scoperto. Leader ed elettori.

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