L’Europa sarà davvero l’Europa solo quando il voto per il Parlamento di Strasburgo sarà più importante del voto per le assemblee legislative dei singoli Stati. Traduzione: l’Europa sarà davvero l’Europa solo quando verrà raggiunta l’unità politica del Vecchio Continente. Nell’attesa che si giunga al traguardo degli Stati Uniti d’Europa le nazioni dell’Unione si divideranno, al loro interno, tra coloro che vogliono cedere sovranità e coloro che vogliono incrementarla a scapito delle istituzioni comunitarie. In breve: la meta dell’unità politica del Vecchio Continente è tutt’altro che scontata o a portata di mano, anche se, nonostante tutto, il processo di integrazione ha finora compiuto progressi rilevanti, pur se sottostimati.
Gira e rigira, la questione rimane quella contenuta nella perfida domanda dell’ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger: chi risponde al telefono se io chiamo in Europa? Già. Chi risponde?
Vivessero Alcide De Gasperi (1881-1954) o Konrad Adenauer (1876-1967), ma pure quelli che li hanno seguiti a ruota, il problema sarebbe stato risolto da lunga pezza. Ma l’Europa non dispone oggi di leader orientati a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Anche le personalità più europeiste non posseggono oggi il coraggio e il carisma dei loro predecessori, altrimenti non si sarebbe realizzato il combinato disposto tra populismo e nazionalismo, sia pure nella formula mediana del sovranismo.
Probabilmente l’Europa non dispone nemmeno di un efficace ufficio stampa o di bravi addetti alla comunicazione, perché sfugge all’elettorato, non solo italiano, una verità chiara come il sole: quasi tutte le opere pubbliche, dalle piccole alle grandi, vengono realizzate con i fondi europei.
La sensazione, o meglio, la convinzione generale, è che l’Europa sia una sorta di Crudelia Demon o di Grande Sorella che spreme e castra i popoli per soddisfare la propria libidine di potere. Non è così, come dimostrano le cifre, ma i luoghi comuni e i pregiudizi sono più duri del granito.
Il paradosso è che il cosiddetto sovranismo abbia attecchito ad Est, proprio presso le popolazioni che più hanno ricavato vantaggi dall’ingresso in Europa. Ma, si sa, anche in tempo di pace, non solo in tempo di guerra, la verità è più bersagliata di San Sebastiano.
Ciò non vuol dire che l’Europa sia una filiale del paradiso terrestre. L’Europa ha mille difetti, come ogni costruzione umana. Ma un conto è battersi per correggere errori e distorsioni, un conto è lottare per ritornare all’antico, quando l’Europa si segnalava più per le guerre militari che per i traffici economici. Basterebbe solo questa riflessione per archiviare la diatriba tra europeisti e anti-europeisti. Ma, è noto, la memoria può giocare brutti scherzi, specie se non viene alimentata dalle batterie della lettura. Più si allontana il ricordo, frutto di testimonianze dirette, del secondo conflitto mondiale, più cresce la tentazione, la nostalgia delle piccole patrie, nell’errata convinzione che un Continente atomizzato sia più efficiente e democratico di un’istituzione dai grandi numeri e dai voluminosi obiettivi.
A dispetto delle vulgate più di moda, l’Italia deve molto all’Europa. Deve molto non solo perché le ha aperto la strada per gli scambi con le aree ricche di Germania e Francia, ma soprattutto perché grazie ai vincoli esterni, l’Italia ha potuto e dovuto riallinearsi a politiche di rigore finanziario, in grado di frenare la corsa verso il baratro. Senza l’Europa, davvero l’Italia avrebbe fatto la fine dell’Argentina o di altri agglomerati sudamericani, visto che, a un certo punto, la sua voglia matta di spendere aveva raggiunto livelli inarrestabili, grazie alla malsana idea che, dopo tutto, svalutazione e inflazione avrebbero risistemato le cose. La storia ha sempre dimostrato che le gestioni allegre dell’econonia producono più disastri di una guerra vera, combattuta con armi militari. Ma questa lezione non incontra sempre studenti disciplinati, smaniosi di apprendere e tesaurizzare. Di conseguenza, si rischia di ripartire da zero.
Il vincolo esterno europeo ha salvato il Belpaese dal classico «destino cinico e baro». Questa elementare constatazione non è condivisa da tutti, ma le cifre non hanno colore, stanno lì a dimostrarlo.
Ma questi ragionamenti che, nelle settimane scorse, si erano affacciati per accendere le luci sulla posta in gioco e sul futuro dell’Unione Europea, hanno via via perso velocità e credibilità a beneficio dell’esclusiva tenzone nazionale tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini che, da scafati comunicatori, hanno monopolizzato la scena, relegando la materia vera della contesa elettorale (ossia l’avvenire dell’Europa) nel sottotetto degli oggetti smarriti.
Ok. Tutto è politica interna in Italia, anche il Festival di Sanremo. Figuriamoci una consultazione come quella odierna. Ma ciò non toglie che sia l’Europa il tema su cui dovranno esercitarsi gli elettori. Conviene imitare gli inglesi che, dopo aver voltato le spalle a Bruxelles, si sono infilati in un tunnel di cui non riescono ancora a vedere la fine? O conviene imitare quegli Stati che ancora credono agli ideali europeistici di Altiero Spinelli (1907-1986) e di Luigi Einaudi (1874-1961)?
Che l’uscita dall’Europa sia più pericolosa di una curva affrontata di notte, a fari spenti, a 200 km orari, è sotto gli occhi di tutti. Basti osservare le vicende britanniche: un Paese da tre anni nel pallone, con la prospettiva di precipitare in un irreparabile psicodramma collettivo. Tanto è vero che oggi nessuna tra le due forze italiane più ostili a Bruxelles ripropone il distacco dall’euro.
Ma non c’è tempo da perdere. L’Europa non può rimanere una costruzione a metà, altrimenti rischia di subire i contraccolpi di tutti gli edifici non completati: usura dei materiali, degrado, instabilità, crollo.
In particolare il Mezzogiorno non può fare a meno dell’Unione, che resta l’unica Cassa esistente. Un Mezzogiorno senza Europa si trasformerebbe, nel migliore dei casi, in terra di scorrerie per i grandi del pianeta e, nel peggiore dei casi, in area di ri-sottosviluppo più vicina a Tripoli che a Francoforte.