Cosa unisce le polemiche su Bankitalia, la manifestazione contro il Governo gialloverde organizzata sabato scorso a Roma dai sindacati confederali e le tensioni tra il nostro Paese e la Francia? In apparenza nulla, trattandosi di episodi difficilmente comparabili per conseguenze e per circostanze fattuali. In realtà tanto, a partire dalle modalità con le quali provare a manifestare le differenti esigenze trasformative così come maturate finora. La sociologia ha chiarito da tempo che al cambiamento si può arrivare in due modi: o attraverso la dimensione evolutiva (ciò che viene definito “darwinismo sociale”) per cui tende a prevalere il modello più idoneo ad interpretare il bisogno di superamento dello status quo.
Oppure attraverso il conflitto, secondo un approccio che associa la rottura della convenzione sociale e talvolta il superamento della prospettiva della stabilità all’esercizio di pratiche di autentico conflitto.
Ad analizzare gli accadimenti delle ultime settimane sembra che l’unico modo possibile per generare il cambiamento sia quello di alimentare il clima di contrapposizione tra portatori di interessi antitetici. Le ragioni della sintesi restano sullo sfondo, poiché gran parte della partita si gioca sul terreno della rincorsa di esercizi muscolari che talvolta indeboliscono le istituzioni che ad essi fanno ricorso. Si potrà obiettare (ma non all’autore di quest’analisi da anni impegnato a raccontare il processo di trasformazione della politica in comunicazione e marketing) che il conflitto è l’elemento caratterizzante di un ecosistema nel quale decisioni e scelte programmatiche, ma anche opinioni e interpretazioni, sono concepite quasi esclusivamente perché sopravvivano all’interno dei meandri della sfera pubblica mediata. Si può fare questo, ma la questione è più complessa. Pesa il voto in Abruzzo (che vede in competizione i due partiti che in questo momento governano l’Italia) e in altre regioni, quello per il rinnovo del Parlamento europeo, ma il conflitto è stato elevato a paradigma. Come uno tzunami che investe tutto e tutti. E non da ora, se è vero come è vero che l’attacco a Palazzo Koch fu sferrato già a fine 2017 dall’allora presidente del Consiglio Renzi, il quale davanti all’esplosione delle crisi bancarie chiese addirittura la testa del Governatore Visco, sostenendo, un po’ come hanno fatto l’altro ieri Di Maio e Salvini, che via Nazionale e Consob non avevano garantito un sistema di controlli efficienti. Renzi arrivò ad affermare che se le autorità di vigilanza avessero passato il proprio tempo leggendo meglio i documenti, anziché parlare con i giornalisti per raccontare retroscena discutibili, il mondo del credito e della finanza sarebbe stato meglio. Come noto, le notizie degli ultimi giorni si riferiscono alla contestazione della proroga di un membro del direttorio di Bankitalia, non del Governatore. Ben altra cosa, dunque.
Da un lato, come ha ricordato il ministro Tria, vi è la necessità di preservare l’autonomia e l’indipendenza di Bankitalia, dall’altro occorre guardare avanti ed accertare una volta per tutte quale debba essere il ruolo di via Nazionale a fronte di situazioni come quelle alle quali ci ha abituato negli ultimi anni parte del sistema bancario. Quali sono le reali prerogative di Palazzo Koch? Mentre si prova a dare una risposta a questa domanda, non può certo creare stupore il fatto che un Governo a forte legittimazione popolare (come quello di Cinque Stelle e Lega) provi a difendere i correntisti delle banche fallite dimostrando loro di voler cambiare la situazione a partire dall’inasprimento dei controlli. Per evitare che si acuisca lo scontro tra istituzioni è, perciò, indispensabile definire il ruolo di Banca d’Italia in chiave preventiva di comportamenti disinvolti posti in essere da taluni istituti di credito ed assicurare i decreti attuativi per gli indennizzi da erogare alle persone truffate. Tema quest’ultimo su cui pesano i dubbi dell’Unione europea.
Si può risolvere la questione senza ricorrere al muro contro muro, senza brandire a tutti i costi l’arma del paradigma del conflitto? Si può e si deve, a condizione inderogabile che non si ripetano più i brutti episodi di risparmiatori truffati dalle banche. La commissione che sarà presieduta da Gianluigi Paragone ha il compito di contribuire a far luce sulle distorsioni del sistema, consentendo alla politica interventi correttivi nell’interesse della sostenibilità del sistema economico, a maggior ragione dopo l’entrata nella fase della recessione tecnica.
A tal proposito è utile ricordare che a fronte delle previsioni di una crescita più contenuta del previsto è indispensabile mettere in campo politiche realmente espansive e misure per l’occupazione, sfruttando la capacità di esportazione di molte nostre imprese ed il risparmio degli italiani (tra i più diffusi al mondo), ma anche riducendo il debito pubblico, facendo investimenti in infrastrutture e in opere pubbliche e proseguendo lungo il percorso della riduzione di povertà e disuguaglianze sociali. Legittimo è discutere su come funzionerà effettivamente il reddito di cittadinanza e su quali e quante distorsioni attuative si verificheranno nel concreto, ma non si può considerare negativo uno strumento di sostegno a chi si trova in situazioni di reali difficoltà, così come non si può trascurare l’effetto di accelerazione della domanda interna. Parimenti non si possono non considerare gli effetti positivi generabili dall’entrata in vigore della riforma della Fornero con “quota cento”. Ed è altresì legittimo chiedersi quale sia la ragione (se non quella di usare la carta del conflitto a fini identitari) che ha indotto i sindacati a scendere in piazza contro il Governo proprio mentre la politica economica di quest’ultima si sta rivolgendo all’indirizzo dei soggetti più deboli.
Superare il conflitto è ciò che serve anche tra Italia e Francia. E ciò non solo per recuperare un’armonia che è parte integrante del rapporto tra questi due Paesi europei, ma anche per evitare che si producano conseguenze economiche negative. Come ha ricordato Sergio Romano, è proprio sul terreno dell’economia e della finanza che Roma e Parigi sono sembrati avversari, più che partner. Una condizione (più che un processo) andata acuendosi man mano che si rendeva evidente la distanza tra due differenti idee di Europa e tra due differenti chiavi interpretative del rapporto tra leader e popolo. È forse arrivato il momento di annotare che il conflitto non è l’unica strada utile a perseguire il pur necessario obiettivo del cambiamento.