Impotenti ad offrire un rimedio ai disperati del mondo quando affogano nel Mediterraneo, quei morti di prossimità in Capitanata sollecitano paradossalmente l’impegno ad agire senza più tentennamenti. Perché il bollettino di guerra che nelle ultime 72 ore ha insanguinato la provincia di Foggia, con i morti di Ascoli Satriano, Lesina e Castelluccio, fa rabbrividire finanche rispetto ai morti delle “mattanze” di mafia: sedici vittime, quasi tutte di origine africana, tutti ospiti dei “ghetti” che costellano il Tavoliere delle Puglie, il granaio d’Italia che ha ceduto lo scettro all’oro rosso, il pomodoro insanguinato. Sono raccoglitori reclutati dai caporali, spesso africani o neo comunitari, le vittime di questi drammatici incidenti stradali che hanno comunque una loro tracciabilità. Tentare di derubricare il bilancio di morti e lamiere a tragica fatalità significa continuare a non voler vedere quello che accade, giorno dopo giorno, durante le campagne di raccolta (e non solo per il pomodoro) nella provincia di Foggia. Nessuna disconnessione con la realtà, dunque. Questi morti sono figli della deregulation del mercato del lavoro (inesistente), della prevaricazione della mediazione dei caporali (oggi come ieri non è cambiato nulla), dell’arroganza degli imprenditori che schiavizzano migliaia e migliaia di “braccia” in cerca di lavoro. Lavoro, va aggiunto, che gli italiani spesso non hanno più intenzione di fare: nelle campagne ma anche nelle aziende zootecniche si trovano solo extracomunitari (africani, indiani, pakistani) e neo comunitari. I locali sono una minoranza. Volutamente. Ma questo non autorizza alcuno a calpestare i diritti ed il "minimo sindacale".
Con una offerta senza precedenti - si stima la presenza di almeno quindicimila extracomunitari e neo comunitari nelle campagne foggiane - la scelta è fin troppo facile: chi accetta queste condizioni al ribasso lavora, chi non le accetta resta nei ghetti in attesa, fino a quando non si convince che la proposta del “suo” caporale è quella del prendere o lasciare. E spesso la si accetta.
Che potesse accadere una tragedia del genere, quattro morti sabato scorso, dodici ieri, lo si era amaramente compreso da tempo, perché il “traffico” di furgoni, minibus, suv lungo le strade della Capitanata si era moltiplicato in maniera esponenziale negli ultimi quindici giorni: da nord a sud del Tavoliere, al mattino presto e nel primo pomeriggio, è un andirivieni di mezzi che trasportano braccianti: con a bordo il caporale. C’è da chiedersi, ancora una volta, per quale motivo non vengono almeno fatti i controlli “stradali” o per violazione al codice della strada (il bus frantumato ieri aveva 13 persone a bordo ed era omologato per 9) visto che se è difficile pescare i caporali nelle campagne è certamente più facile bloccarli mentre svolgono attività di trasporto. E magari capire anche dove sono diretti, per smascherare quegli imprenditori che sfruttano il lavoro fino a rendere schiave le persone, per moltiplicare i profitti in danno prima di tutto dei lavoratori, di quelle poche aziende in regola ed ovviamente anche dello Stato con l’evasione e l’elusione fiscale.
Se non si comprende che, al pari della vertenza criminalità, quella del caporalato è una piaga locale ma con ricadute nazionali, sarà più difficile sia contenerla che eliminarla.
Certo, il fenomeno è endemico, ma questo non significa rassegnarsi a convivere con esso. Tutt’altro. Anche perché sul piano sociale, economico e culturale la situazione è peggiorata rispetto ai braccianti di 50 anni fa, quelli che tornavano a casa con la pelle biscottata dal sole, ma che avevano almeno in Peppino Di Vittorio un difensore dei loro diritti ed in Matteo Salvatore il cantore delle loro disgrazie.
E se il terribile è già accaduto, in quell’inceppamento che ci porta alla difesa dei nostri confini mentali mentre il mondo si muove velocemente, ora più di ieri servono atti di responsabilità. Quei ragazzi morti lontano dalla loro terra e dalle loro famiglie, probabilmente dai loro affetti, in quei campi di lavoro avevano proiettato comunque un progetto di vita, un futuro più decoroso, una condizione più dignitosa nello stare al mondo. Siccome ciò che rende tragico il destino è questo carattere di ineluttabilità, occorre avere il coraggio di cambiarlo senza arrendersi nè alla predestinazione (per i lavoratori schiavizzati) nè al prestabilito in una provincia che deve fare ogni sforzo per uscire da questa arretratezza civile.