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Taranto, quei tre crociferi scalzi nella processione di Maria Addolorata

 
Francesco Casula

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Francesco Casula

I tre crociferi scalzi nella processione di Maria Addolorata

La Passione di Taranto (foto Todaro)

Verso la Settimana Santa: il racconto a puntate dei simboli che compongono i cortei sacri del giovedì e venerdì

Martedì 05 Aprile 2022, 12:30

TARANTO - Come le cadute di Gesù nella salita al Calvario. Come i condannati i morti sulla croce sul Golgota. Anche i crociferi all’interno del pellegrinaggio dell’Addolorata sono tre. Un numero importante e significativo nella letteratura biblica e nella religiosità popolare tarantina. Piegati sotto il peso della croce e con una simbolica corona di spina posata sul capo, i crociferi sono gli unici partecipanti del corteo che, alla mezzanotte del Giovedì Santo nazzicando dal tempio di san Domenico, percorrono il cammino a piedi nudi. Non indossano la tradizionale «mozzetta nera», la mantellina che più ogni altro dettaglio distingue le congreghe tarantine: i tre confratelli portatori delle croci indossano solo il lungo camicione bianco e le fasce nere che cingono la vita. Il crocifero, più di ogni altro, è il simbolo che distingue il rito dell’Addolorata da quello del Carmine: anche la figura del troccolante e la Croce dei Misteri sono presenti, infatti, nella processione del Venerdì Santo, ma non i crociferi. Sono quindi un patrimonio unico della congrega della città vecchia.

Come racconta nelle sue opere lo storico Nicola Caputo, quei tre simboli fino a primi anni del ‘900 erano in realtà quattro. Una in più rispetto a quelle attuali. Per le croci, come per le poste, in quei tempi la loro numerazione dipendeva dalla vicinanza alla statua dell’Addolorata, proprio come avviene oggi: la prima croce, quindi, è quella più vicina al simulacro e più ci si allontana dal fulcro del corteo e più alta sarà la numerazione. Di contro è evidente quindi che le prime a uscire erano la quarta croce (come detto oggi, sono solo tre) per arrivare, intervallate da gruppi di tre o quattro poste, fino alla prima. Non è ancora conosciuto l’anno e soprattutto il motivo per il quale furono ridotti nel numero: con il crollo del tetto di san Domenico nel 1968, tantissimi documenti della congrega sono andati perduti e la vera storia di questa figura affascinante non è ancora stata ricostruita del tutto. Dalle poche notizie raccolte, però, sono emersi dettagli misteriosi. Come l’assenza tra il 1906 e il 1921 dai libri contabili della Domenica delle Palme, giorno in cui in confratelli si aggiudicano con libere offerte le statue, i simboli e le poste delle processioni. In quegli anni, infatti, le tre croci non furono «aggiudicate» come sempre: Caputo racconta che in quegli anni le tre croci non comparvero nei registri degli introiti della congrega dato che quel simbolo era portato in pellegrinaggio nella notte tra Giovedì e Venerdì Santi dai sagrestani. A questi ultimi veniva devoluta in cambio di quel sacrificio l’offerta donata dai confratelli. Il denaro che entrava per l’aggiudicazione, quindi, era immediatamente segnato in uscita come dono ai sagrestani. Tempi diversi, quando i riti erano sentiti solo da una parte della città e a volte erano necessario cercare sconosciuti o comunque non iscritti alla confraternita per completare il quadro dei partecipanti. Episodi difficili da immaginare oggi che le confraternite contano migliaia di iscritti di tutte le età e di ogni estrazione sociale.

Anche per il crocifero, la tradizione ha scelto un volto e un nome da legare per sempre alla storia di quel simbolo. In questa è la famiglia D’alba. Per la famiglia D’alba, tutto comincia con Domenico che tutti chiamavano «Cicchetegnacche» a causa di un problema a una gamba che lo aveva reso claudicante. Quel problema fisico, però, forse lo aveva spinto a scegliere il crocifero come suo posto in processione e quello stesso difetto era diventato il suo punto di forza durante la nazzicata, quella andatura lenta e dondolante che caratterizza le processioni tarantine: a distanza di quasi un scolo il racconto dei suoi movimenti con la croce sulle spalle è ancora leggenda, mito per gli anziani e fonte di ispirazione per i più giovani. Il testimone passò negli anni al figlio, Giovanni D’alba, classe 1937 e confratello dal 1946. Scomparso pochi anni fa, Giovanni aveva raccontato che l’eredità arrivò proprio nei primi anni dopo la seconda guerra mondiale: «C’erano ancora gli alleati a Taranto che svolgevano il servizio d’ordine e cercarono di allontanarmi, ma con mio padre non la spuntavano. Disse loro che ero suo figlio e il mio posto era accanto a lui. E sono rimasto lì. Per sempre». Col passare degli anni per la famiglia D’alba e per i nipoti di Domenico e Giovanni la tradizione non è cambiata: da quasi un secolo c’è sempre un D’alba con l’abito di rito. A ricordo del sacrificio di Cicchetegnacche. Perché la tradizione, in fondo, è un ricordo che si perpetua. Sempre uguale. Proprio come la storia dei crociferi.

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