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Il senso di Ani per la neve. Storia di un amore glaciale

 
lorenzo mattei

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lorenzo mattei

Il senso di Ani per la neve storia di un amore glaciale

Il gelo di Yopougon e la storia di un adolescente che conosce... il freddo

Martedì 18 Agosto 2020, 14:32

«Com’è bella la neve! E il ghiaccio? Meraviglioso!». Sul muro del corridoio principale del liceo di Yopougon, una città satellite di Abidjan in Costa d’Avorio, sono appese le fotografie dei più suggestivi paesaggi della Terra e lo sguardo di Ani, un quattordicenne tanto curioso quanto gracile, si posa sempre e solo sulle distese innevate, forse perché detesta quell’umidità che sin da piccolo gli entra nelle ossa come fosse una morsa di boa o un tarlo. A Jean, il più grande e scafato del gruppo dei suoi amici, Ani ogni tanto chiede di mostrargli sullo schermo dello smart phone scorci della Norvegia o dell’Islanda.

Spesso si diverte a fissare la foto d’un ghiacciaio e poi a chiudere gli occhi, contando i secondi in cui l’immagine in negativo resta fissata all’interno delle sue palpebre. «Forse – pensa – anche l’anima ci mette questo tempo a svanire quando si muore». La Morte faceva parte della sua vita: s’era presa, due anni addietro, la sorellina e almeno due o tre amici; di sicuro Yaya – quel ragazzotto che si vantava di possedere un kalashnikov e che una notte partì su una camionetta piena di uomini armati senza fare ritorno – e forse anche Bernadette che a dodici anni si truccava tutta e si vestiva attillata pur restando con gli occhi tristissimi.

Ani ama ascoltare i racconti del vecchio custode della chiesa di Sant’Andrea che gli parla dei paesi del Nord Europa da lui visitati in gioventù, quando faceva parte della scorta del vescovo. Più lo sentiva parlare del freddo e del gelo intenso e della neve che taglia labbra e orecchie, e più la percezione dell’umidità aumentava, tormentandolo. Doveva partire. Dopotutto si sentiva grande. A quattordici anni molte delle sue amiche erano madri e tanti suoi compagni invece di studiare già lavoravano.

La sua impresa sarebbe stata quella di raggiungere il Nord del mondo, ma non poteva farne parola con la famiglia che non lo avrebbe mai compreso. Come partire? Il costo d’un volo equivaleva al lavoro di tre anni di suo padre. Laurent, il più sbruffone dei suoi coetanei, descriveva le sue gesta funamboliche e, soprattutto, le burle fatte ai danni di suo zio che lavora nell’aeroporto di Abidjan. Un giorno era riuscito a entrare sulla pista di atterraggio, proprio mentre un aereo stava decollando, e quasi quasi avrebbe potuto superarlo in velocità se non gli si fosse slacciata una scarpa. Le smargiassate di Laurent fanno ridere la compagnia di ragazzetti ma Ani, pur accennando a una smorfia di sorriso, si astrae dal gruppo elaborando il suo piano: sarebbe salito su un aereo passando dal carrello d’atterraggio così come aveva visto fare in un film da un agente speciale. Non pareva così difficile.

É gennaio, sera inoltrata. Ani esce di casa – ma non di soppiatto, perché i suoi genitori son quasi sempre altrove e i suoi tre fratelli non badano a lui – per accompagnare Laurent ad Abidjan da suo zio. L’aeroporto, visto per la prima volta, gli sembra piccolo, ridotto a un capannone, o poco più, con poche palme striminzite all’ingresso messe lì per dare una parvenza di ordine e prestigio. Ne resta molto deluso ma non ha tempo da perdere in riflessioni e giudizi. Lo zio di Laurent non s’è fatto trovare sul luogo dell’appuntamento e per cercarlo i due ragazzini decidono di dividersi. Quale occasione migliore? Ani si dirige verso il varco da cui entrano gli addetti alla pista di decollo. Al vigilante si spaccia per il nipote del collega ed entra, prendendosi un leggero schiaffo sulla nuca. Il buio è pesto ma non impedisce certo d’individuare l’aereo che di lì a mezz’ora avrebbe preso il volo. Ani non ne conosce la destinazione – magari il Sud Africa? – ma tanto per lui tutti gli aerei vanno a Nord, via dall’umido della Costa d’Avorio, verso la neve.

Di ruote ne aveva viste tante. Le più grosse erano quelle dei camion che facevano il carico di ragazzine sue coetanee per darle in pasto a impensabili orchi; ma enormi come quelle d’un aereo non ne aveva mai concepite. Chiuse gli occhi, aspettò che scomparisse dalle palpebre il ricordo delle luci della pista; li riaprì e si diede un tale slancio da raggiungere la sommità della ruota, arrampicandosi poi sulla gamba di forza e poi ancora più su, dentro la fusoliera. La sua gracilità lo aveva sempre fatto vincere nelle gare con gli amici a salire sulle palme e ora il freddo metallo di quei pistoni, ammortizzatori e gambe metalliche gli sembrava già una promessa di vita nuova. È accucciato e immobile Ani, tutt’altro che spaventato. Sente grida, passi sulla scaletta d’imbarco, il cigolio di un nastro trasportatore. Vede luci più forti e sente un rumore fragoroso: il motore si è acceso e si prepara a raggiungere la massima potenza. Il suo cuore non batte forte, non accelera come invece sta facendo il grande velivolo. Le emozioni più animalesche come la paura se l’è già bruciate tanti anni prima, vedendo crivellare uomini o dando una mano a seppellire neonati morti di stenti. Ora pensa solo al Nord. Le orecchie in realtà fanno un po’ male ma del resto per un viaggio così importante qualche noia va preventivata, no? Oltre a far male, però, sembrano bagnate e a toccarle vede che da esse esce un liquido rosso; ma non ne è certo perché gli occhi incominciano ad annebbiarsi. Di spazio ce n’è in quella fusoliera, eppure Ani si sente come quando si nascose in un tronco d’albero cavo fin quasi a schiacciarsi il torace. Pare mancare l’aria e c’è davvero freddo, autentico gelo. Ani non ha mai provato che cosa sia il freddo e questa nuova sensazione lo inebria.

Per la prima volta è felice; non percepisce più l’umidità ma soltanto uno strano formicolio che gli blocca prima i piedi, poi le ginocchia, quindi i polsi e infine le dita e la lingua. Allora chiude gli occhi ma questa volta non ha un’immagine in negativo da memorizzare. Quello che vede è la laguna di Ébrié ghiacciata e la neve che fiocca sui tetti piatti di Yopougon. Dalle palme scendono stalattiti di ghiaccio e la foresta pluviale viene sommersa da una coltre bianca. Alcune scimmie assaggiano la neve, spaventate; poi si disperdono per via d’un colpo di fucile sentito in lontananza: è tornato Yaya! La sua sagoma bianca è nitida sulle palpebre, almeno per una ventina di secondi. Poi più nulla.

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