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Riforma della Giustizia, Laforgia: «Indagini, personale, infrastrutture le vere disfunzioni sono altrove»

 
Avv. Michele Laforgia

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Avv. Michele Laforgia

Michele Laforgia

Invece di pensare ad un ulteriore incremento dei termini di prescrizione dei reati – già oggi lunghissimi, per alcuni delitti di particolare allarme sociale – bisogna adeguare la domanda di giustizia all’offerta

Domenica 23 Maggio 2021, 10:31

Nel 2017 il 53% delle prescrizioni dei reati si è verificato durante le indagini o in udienza preliminare, prima ancora di iniziare un processo. Dovrebbe essere evidente, dunque, che riformare la prescrizione per garantire la ragionevole durata del processo penale è, semplicemente, un non senso. Deriva dal pregiudizio, duro a morire, secondo cui i tempi biblici della giustizia dipendono dalle tecniche dilatorie di imputati e difensori, non sapendo, o fingendo di non sapere, che i rinvii richiesti dalla difesa, anche per legittimo impedimento, sospendono i termini di prescrizione. Le disfunzioni sono da cercare altrove: nella eccessiva dilatazione della durata delle indagini, nei tempi morti di lavorazione dei fascicoli nelle segreterie e nelle cancellerie, afflitte dalla cronica penuria di attrezzature e personale, e infine, nel farraginoso sistema delle notifiche alle parti private. Fermo restando che il nostro sistema è sovraffollato da molteplici fattispecie di reato, anche per illeciti bagatellari: tutti destinati al medesimo, accidentato percorso processuale.

Il paragone con i Paesi in cui la prescrizione non esiste o riguarda casi del tutto sporadici, peraltro, non è molto pertinente. In Italia l’azione penale è obbligatoria e quindi ogni notizia di reato non può non essere perseguita, almeno sulla carta; gli strumenti deflattivi sono limitati e il ricorso ai riti alternativi, in confronto, ad esempio, agli Stati Uniti – che pure è la patria del sistema accusatorio – è impietoso, posto che oltreoceano la stragrande maggioranza dei procedimenti è definita dalla negoziazione fra le parti. Se ne dovrebbe agevolmente desumere che rendere i processi ancora più longevi o, in ipotesi, eterni – com’è attualmente, dopo la pronuncia della sentenza di primo grado – non solo non è una soluzione, ma rischia di costituire un ulteriore problema. Senza valvole di sfogo il sistema, così com’è, è destinato ad esplodere. Soprattutto dopo l’ingorgo determinato dalla pandemia, che ha determinato il rinvio forzato di migliaia di processi. Urge trovare rimedi, se non vogliamo trovarci, di qui a qualche mese, in condizione di paralisi. Partire dalla fine, dall’eutanasia del processo per l’eccessivo decorso del tempo, pertanto, non è una buona idea.

Occorre intervenire sul funzionamento della giustizia ordinaria e rendere la macchina più efficiente e meno iniqua, senza farsi abbagliare dai riflettori puntati sui grandi processi, assai poco rappresentativi. E l’obiettivo non può essere solo quello di rendere decisioni più rapide, ma di sottrarre i processi all’arbitrio del caso o della diseguale distribuzione delle risorse, senza ridurre le garanzie. I cittadini dovrebbero essere uguali, davanti alla legge. E invece così non è, se oggi vi sono uffici giudiziari ospitati in scintillanti edifici di ultima generazione e tribunali allocati in palazzi fatiscenti, dove le udienze si tengono nei sottoscala. Anche in materia di giustizia esistono le diseguaglianze, drammaticamente aggravate dalla pandemia. E qualsiasi riforma non può prescindere dalla necessità di ridurle, se non di azzerarle, mediante un’equa redistribuzione delle risorse. Con un investimento adeguato, perché la tutela dei diritti è una delle funzioni fondamentali dello Stato democratico, alla base della coesione sociale. Che fare, allora? Invece di pensare ad un ulteriore incremento dei termini di prescrizione dei reati – già oggi lunghissimi, per alcuni delitti di particolare allarme sociale – bisogna adeguare la domanda di giustizia all’offerta. E quindi, da un lato intervenire sulle infrastrutture (l’edilizia, la digitalizzazione, il personale), dall’altro porre un freno al proliferare incontrollato delle fattispecie di reato. Si dice da sempre che occorre depenalizzare, ma si continua invece disinvoltamente a criminalizzare, come se la limitazione della libertà, che è l’essenza della sanzione penale, costituisse il rimedio per tutti i mali.

Al contrario, il sovraffollamento carcerario è di per sè un altro male, che viola i diritti dei detenuti e impedisce di attribuire alla pena la funzione rieducativa prescritta dalla Costituzione. Un tema al quale, fortunatamente, è assai sensibile l’attuale Ministra della Giustizia Marta Cartabia: non si può parlare di efficienza della giustizia penale se non ci si pone, contestualmente, il problema della riforma del sistema sanzionatorio. Oggi il carcere è la regola, le misure alternative l’eccezione. È un paradigma che va senz’altro rovesciato. Infine, è imprescindibile intervenire sulla formazione di chi materialmente rende giustizia: magistrati e avvocati. I tempi dei processi dipendono anche dalla professionalità di chi opera sul campo, talvolta in trincea. Oggi gli avvocati sono selezionati dal mercato, che non sempre premia gli onesti, i magistrati da un concorso pubblico, che, una volta superato, garantisce la progressione in carriera per anzianità. Se vogliamo davvero riformare la giustizia, occorre partire da qui.

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