«La musica è sempre divertente, anche quando è seria. E se non ti fa almeno sorridere dentro, allora stai solo facendo rumore». Lo notava il genio iconoclasta di Frank Zappa, e a ben pensarci l’affermazione è più seria di quanto si pensi. Chi ha stabilito che l’arte dei suoni debba essere associata solo al sublime, alla passione o al dramma? L’umorismo musicale è una chiave spesso nascosta, a volte evidente, altre volte sottile e ironica, che percorre secoli di storia: dalla musica barocca alle opere liriche, dalla musica colta del Novecento fino a quel filone tutto italiano di cantautori e teatranti che hanno saputo mescolare risate e malinconia in un’unica arte.
Già nel barocco si intravedono i primi segnali di un intento ironico, sebbene codificati in forme stilizzate. Uno degli esempi più curiosi arriva da Domenico Scarlatti, che nelle sue Sonate per clavicembalo inseriva passaggi dissonanti o imitazioni di suoni «bassi» per divertire la corte. Ma è con il classicismo che l’umorismo musicale assume contorni più netti e consapevoli. Joseph Haydn è forse il primo grande “comico” della musica colta. Basti pensare alla Sinfonia n. 94, detta «La Sorpresa», dove alcuni “fortissimi” improvvisi irrompono in un contesto teneramente dolce, spaventando e divertendo gli ascoltatori.
Nel ‘700 e ‘800 l’umorismo prende piede anche a teatro, con l’exploit dell’opera buffa italiana, da Il barbiere di Siviglia di Rossini al Don Pasquale di Donizetti. Le caricature sociali, i travestimenti, le gag ritmiche, le vocali allungate, i duetti nonsense: tutto serviva a solleticare il pubblico. Anche Mozart, con Le nozze di Figaro e Così fan tutte si diverte a musicare equivoci, seduzioni e scherzi. Nel Novecento, l’umorismo musicale diventa invece più spesso mezzo critico. Erik Satie, con i suoi titoli surreali (Trois morceaux en forme de poire, “Tre pezzi a forma di pera”, per pianoforte a quattro mani) e le annotazioni ironiche nelle partiture, gioca con le aspettative dell’ascoltatore. Nel ‘900 Mauricio Kagel e György Ligeti spingeranno l’umorismo fino all’assurdo e alla provocazione sonora, senza dimenticare Igor Stravinsky, con gli elementi grotteschi e parodistici di brani come Renard o L’histoire du solda».
In questo excursus non possiamo trascurare quel cantautorato italiano degli anni ’60 e ‘70 con cui l’umorismo assume un’identità propria, capace di fondere comicità, denuncia e poesia. Al centro c’è Dario Fo, che fa dell’improvvisazione musicale uno strumento di satira sociale e politica.
Accanto a lui, Enzo Jannacci è il capofila di una comicità surreale e tenerissima. Canzoni come Un foruncolo o Ho visto un re (scritta con Fo) raccontano la miseria, l’umanità e la follia quotidiana con un sorriso amaro. La sua voce roca, le frasi spezzate, i giochi linguistici trasformano la canzone in un racconto da bar, in una seduta psicanalitica collettiva. E Giorgio Gaber? Con il suo teatro-canzone, usa l’ironia per smontare i luoghi comuni della società borghese: in Lo shampoo o Il conformista la risata è sempre accompagnata da una riflessione tagliente.
E poi ci sono I Gufi, pionieri del cabaret musicale milanese, capaci di mescolare folklore, nonsense e attualità. Felice Andreasi, attore dal volto inquieto e grottesco, porta in scena una comicità poetica e teatrale, fuori dagli schemi. Indimenticabili anche Cochi e Renato, maestri dell’assurdo, che cantano pezzi come Ho soffritto per te, vera perla del nonsense musicale. In questa tradizione rientrano anche brani come Vorrei tanto (in cui I Gufi cantano ironicamente Vorrei tanto suicidarmi) o Il primo furto non si scorda mai (Jannacci), che ribaltano la morale comune per suggerire verità più profonde. La musica, in questi casi, è lo sfondo complice di una satira esistenziale.
Ma la risata più iconica, inserita in un brano musicale? È senza dubbio quella di Vincent Price, registrata in studio per Thriller di Michael Jackson (1982), la title track dell’omonimo album ancora oggi più venduto nella storia della musica. Volutamente teatrale, riecheggia nel timbro inconfondibile del grande attore statunitense le risate diaboliche dei film horror anni ’50.