«Quando ti senti da solo e perso nel mondo, trovare qualcuno che si sente come te, uno spirito affine, è una salvezza. E tutti si sentono persi, tutti si smarriscono nella vita indipendentemente dal fatto che abbiano sedici o settantasei anni. Mettiamo in discussione le nostre scelte, il modo in cui viviamo, e così è per Holden, così è per mio padre». Sono queste le parole con cui Matt Salinger risponde all’autrice e critica Erica Wagner in un’intervista del 2019 per Penguin Books in occasione del centenario dalla nascita del padre, J. D. Salinger, autore del celebre romanzo di formazione Il giovane Holden (1951). Partiamo proprio da qui, cioè dal fatto che Holden Caulfield non è solo il protagonista di una storia, ma soprattutto un volto in cui specchiarsi e ritrovare se stessi. Il flusso dei suoi pensieri è il nostro. Le sue rivendicazioni sono le nostre. Ciò che lo irrita è ciò che ci irrita. La sua sensibilità è ciò che tutti vorremmo aspettarci dagli altri, ma che noi stessi non sempre siamo in grado di donare. Sullo sfondo di una New York di dicembre gelida e indifferente si innestano le avventure del sedicenne Holden Caulfield, il non così tipico ragazzo “problematico” che, a seguito di risultati scolastici catastrofici - tranne, guarda un po’, in letteratura inglese - e una personalità poco incline a stare nei margini del perbenismo formale del mondo costruito dagli adulti, viene espulso dalla illustre scuola che frequentava. Da qui inizia, per il protagonista, un duro periodo di estrema solitudine e peregrinazione per le squallide vie della città, dove sotto gli occhi di tutti - forse troppo intenti a scrutare in alto i grattacieli senza accorgersi dei deboli germogli che appassiscono sotto le loro scarpe - dovrà riuscire a cavarsela in quel tortuoso percorso che si chiama crescita. Attraverso un periodo di vagabondaggio in senso sia letterale che metaforico Holden riscoprirà la dolcezza nelle persone, negli sconosciuti e nella sua sorellina Phoebe, l’unica che davvero tocca le corde più sensibili del suo cuore e che per un breve tratto del libro farà con lui la strada. Sia pure per pochi attimi, Holden riuscirà ad essere felice. Le brutte esperienze non lo avranno corrotto, neanche quelle più tremende, e le persone che proprio non riusciva a mandar giù, persino loro gli mancheranno sotto quella dolce lente che fa da filtro tra noi e il passato. Holden è autentico, il suo animo è nobile e per questo a un certo punto immagina che il suo ruolo sia quello del catcher in the rye (il titolo originale è appunto The Catcher in the Rye, letteralmente “Il prenditore nella segale”) che acciuffa i cuori puri dei ragazzi quando essi si aggirano ingenui per i campi di segale, nei pressi di dirupi, per non farli piombare nel baratro senza fine che li attende impaziente: l’ipocrisia dell’età adulta, la stessa in cui erano finiti quei signorotti a scuola che prima gli avevano stretto la mano e poi, mano nella mano, lo avevano condotto alla porta d’uscita. Il filo narrativo del romanzo è da cercare nei pensieri di Holden più che nei reali momenti che scandiscono la trama. Ciò che è una costante è lo stile ironico e sarcastico della sua voce pungente. Certamente Holden non è carente di acutezza d’ingegno. Non di rado usa intercalari che servono a lui per esprimere meglio l’intrico di pensieri che ha in mente e a noi per entrare più facilmente nel suo mondo. Espressioni come «non so se mi spiego» o «e via dicendo» vi aiuteranno a orientarvi durante la lettura. Le considerazioni di Holden sapranno strapparvi tanti sorrisi e poi improvvisamente colpirvi dritto al cuore. Dunque, il consiglio - che è anche un monito - per approcciarsi a questo libro è il seguente: leggetelo una prima volta e non ci riuscirete. Provateci una seconda, questa volta lo finirete, ma non ci avrete capito molto. Alla terza forse ancora non sarà tutto chiaro e va bene così, ma avrete preso in mano la matita e l’avrete riempito di sottolineature.

A caccia di felicità
Lunedì 07 Aprile 2025, 21:32