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The Apprentice, la maschera del potere

 
Massimo Causo

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Massimo Causo

The Apprentice, la maschera del potere

La maschera del potere è quella che lascia colare il cerone quando si è ancora in scena, mettendo a nudo davanti al mondo le verità e le responsabilità del proprio gioco

Lunedì 28 Ottobre 2024, 08:30

La maschera del potere è quella che lascia colare il cerone quando si è ancora in scena, mettendo a nudo davanti al mondo le verità e le responsabilità del proprio gioco. Ma cosa è di quella maschera quando non è ancora indossata del tutto? Cosa segna il volto dei potenti prima che vadano in scena e compiano il loro destino? È in qualche modo l’interrogativo che si pone Ali Abbasi in The Apprentice, il film che racconta il giovane Donald Trump, la nascita della sua ambizione, la costruzione del suo impero. Non una tragedia shakespeariana, semmai una commedia triste in cui protervia e frustrazione ballano un tango impacciato e poco sensuale alla corte di un padre ingombrante e goffo e nelle stanze di un avvocato newyorchese sfacciatamente privo di scrupoli: i due poli tra cui si pone la parabola esistenziale del giovane Trump.

Il nome dell’avvocato è – anzi era, visto che è morto nel 1986 per complicazioni da AIDS – Roy Cohn e in qualche modo è il vero protagonista del film di Ali Abbasi, colui che polarizza le pulsioni quasi
adolescenziali del giovane palazzinaro newyorchese e le trasforma nella voracità finanziaria compulsiva del futuro magnate. The Apprentice è lui, Donnie (come lo chiama il padre), l’apprendista stregone dell’alta finanza che deve imparare a stare a tu per tu con l’alta politica. L’immagine del giovane Trump (Sebastian Stan, inversamente efebico...), bamboccio che si pavoneggia con la sua ragazza per essere stato ammesso nel più esclusivo club dei notabili cittadini, è quasi sospesa tra il coming of age e il coming of power e prelude al gioco di seduzione che il potente avvocato Roy Cohn, seduto al suo tavolo tra mafiosi d’ogni risma, innesca con quel ragazzo un po’ impacciato. Sembra quasi Joseph Von Stroheim, il Roy Cohn di Jeremy Strong, per come lo visualizza Ali Abbasi, con quell’aspetto nobilmente smagrito di chi è consumato dalla propria alterigia, dall’arroganza della propria superiorità.

È lui l’ombra che sta alle spalle della nascita di Donald Trump, l’ispiratore dello stile trumpiano, colui che gli ha insegnato quelle tre regole auree che ancora oggi sono alla base del suo modo di gestire ogni cosa: 1) Attaccare. Attaccare. Attaccare. 2) Non ammettere mai nulla, negare sempre tutto. 3) Rivendicare sempre la vittoria e non riconoscere mai la sconfitta. Tre regole che performano la verità come fosse un elemento scenico con cui giocare, non un dato di fatto basato su elementi reali, ma una semplice variabile soggettiva. La seduzione, del resto, è teoricamente proprio questo: condurre nella propria sfera l’altro, convincerlo di sé, della propria verità...

E quello che racconta Ali Abbasi in The Apprentice è esattamente un gioco di seduzione, dove
l’omosessualità occulta/conclamata di Roy Cohn è solo un fattore marginale, dal momento che tutto ruota piuttosto attorno alla pulsione quasi gotica della sua attrazione per Donald Trump, l’impeto di un piacere decadente del potere, la vertigine del controllo, la hubris quasi frankensteiniana della creazione del mostro... E dove, come in ogni storia di seduzione, il punto di non ritorno è segnato dall’inversione della polarità, dal momento in cui il seduttore si scopre sedotto dalla sua stessa creatura, e abbandonato, nella solitudine del suo potere.

Abbasi rende impercettibile lo switch, lo maschera nell’edificazione della progressiva arroganza di Trump, nella parossistica erezione di edifici sempre più alti arredati da quella moglie Ivana (notevole Maria Bakalova) che tanto ha desiderato e che ora non desidera più. Da sparviero Roy Cohn diventa un passero spennato ed è nella sua maliconica fine che Abbasi sospinge la fine malinconica dell’apprendistato che racconta, illustrando un finale in cui l’angoscia del potere corrisponde alla sua esaltazione massima: l’inizio della fine. Concettualmente tutto il film è qui, in questa sorta di perenne dissolvenza incrociata tra poteri che pretendono di occupare il campo: sin dal titolo (mimetico rispetto al celebre programma televisivo di Trump), The Apprentice è tutto costruito sul camouflage di una narrazione che stratifica la vittoria e la sconfitta, il potere e la debolezza, l’attrazione e la repulsione, la devozione e il tradimento.

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