Restano poche certezze in questa stagione di «conflitti intrattabili», come li ha definiti Daniel Bar Tal, studioso israeliano di fama internazionale, che scrive: «L’ethos della cultura del conflitto è all’apice». Tuttavia, se le guerre continuano, sta crescendo anche il dissenso verso la politica che le legittima e diventano più chiare le posizioni degli attori in gioco. Vediamo.
Sembra che gli israeliani siano stanchi del governo Netanyahu e della sua guerra senza quartiere, che sta modificando la geografia del Medioriente e che uccide civili inermi a Gaza e in Cisgiordania, nell’obiettivo di occupare i territori e di cancellare la presenza palestinese. Il sondaggio promosso dal quotidiano israeliano moderato Maariv, per la prima volta, indica una percentuale di sfiducia pari al 62 per cento, dati confermati dall’«allnews» multilingue online Times of Israel. La Fondazione Gariwo, che dal 2012 ha reso europea «la giornata dei Giusti», prima celebrata solo in Israele, ha usato un’espressione forte «Netanyahu ha messo sotto ricatto il suo popolo». Non si contano più gli intellettuali interni e della diaspora che parlano apertamente di genocidio e che continuano a prendere le distanze dalle scelte di un esecutivo, bollato come fondamentalista. Nelle strade, le proteste salgono di livello: accomunano i parenti israeliani degli ostaggi e le madri dei bambini palestinesi uccisi. È un triste mosaico di fotografie, mostrate insieme, che invocano insieme la tregua, con la liberazione dei sopravvissuti ridotti allo stremo. Nonostante la propaganda neghi la carestia in corso a Gaza e dunque l’arma della fame abusata da mesi a danno dei più deboli, l’evidenza dei dati forniti dalle Agenzie delle Nazioni Unite e delle ONG, alle quali è impedito di intervenire, documentano nella sua cruda realtà i crimini in corso e l’aumento incontrollato delle vittime. Netanyahu fin qui ha definito antisemita qualsiasi critica: traditori e bugiardi i suoi detrattori, anche tra gli israeliani ci sarebbero gli antisemiti? Fino a quando potrà farlo? Continuerà a condividere le posizioni dei suoi ministri più oltranzisti, come Ben Gvir e Smotrich, che dichiarano: «Chi resta, si arrenda o muoia», a proposito dell’esodo imposto ai palestinesi dalla Striscia? Ieri, domenica, la 162/esima divisione corazzata israeliana, conosciuta come «Formazione acciaio», è avanzata nel Nord di Gaza, assumendo il controllo di parte di Jabalya, la città di quasi centomila palestinesi, diventata poi un immenso campo profughi. Un’operazione che non è stata condivisa dall’esercito. L’attuale capo dell’IDF (le forze israeliane di difesa), generale Zamir, paventa il rischio di sprofondare Israele «in buco nero». Né basterebbero i 60 mila riservisti richiamati per dare man forte all’operazione militare israeliana, volta alla totale occupazione di Gaza City, approvata dal Gabinetto di sicurezza. Cadrà anche la testa di Eyal Zamir, dopo il licenziamento di chi l’ha preceduto? E rimarrà inevasa anche la proposta di formare un governo di unità nazionale, in carica per sei mesi, arrivando almeno alla liberazione degli ostaggi, formulata dal leader di uno dei partiti dell’opposizione, Benny Gantz, in vista delle elezioni previste per il 2026? Non sono molte le chances, ma sono poche anche le alternative. Tuttavia, insieme ai panzer avanza il dissenso. Ci si augura, che si moltiplichino gli sforzi per la tregua e che si consolidi la condanna (con la sospensione di ogni collaborazione) degli alleati europei di Israele. Da parte americana, nonostante le dichiarazioni sulla pace di Trump, apparse improvvisate, l’appoggio invece resta pieno, soprattutto in campo militare. Sembrano tramontate le possibilità di una mediazione esterna della Casa Bianca.
Vale sullo scenario di Gaza, come su quello dell’Ucraina. Il tycoon non è terzo: troppo vicino a Netanyahu da una parte e di fatto contiguo agli interessi di Putin dall’altra. Mentre infatti, ieri Zelensky celebrava il giorno dell’indipendenza nazionale, con i complimenti alla resistenza del suo popolo, anche da parte di The Donald , il Wall Street Journal diffondeva la notizia che da mesi la Casa Bianca aveva vietato agli ucraini l’impiego dei missili americani Atacms contro obiettivi russi. Dunque, mentre il tycoon esprimeva la necessità di fermare la carneficina in Ucraina, non ne autorizzava la difesa. E anche a proposito delle ultime forniture di missili per 850 milioni di dollari, pagate con soldi europei, il Pentagono ha posto il limite che i raid ucraini non debbano colpire il territorio russo. Non appare imminente, peraltro, dopo gli annunci esibiti e l’imbarazzante vertice di Anchorage, l’incontro Putin-Zelensky. Lo zar può continuare indisturbato nella sua strategia aggressiva che ha appreso l’arte dell’attesa, forte di un arsenale smisurato e del ricambio possibile delle truppe da spedire al fronte.
Per lui, inoltre, c’è un’ulteriore buona notizia: Trump sta smantellando sistematicamente l’apparato di intelligence degli Stati Uniti. L’ultima testa a cadere è stata quella del generale Jeffrey Kruse, a capo della Dia, l’agenzia di intelligence del Pentagono. Secondo l’agenzia di stampa, Reuters, sarebbe stato sollevato dall’incarico insieme ad altri due alti ufficiali per la ragione di aver contraddetto le dichiarazioni del Presidente. Dopo le bombe dello scorso giugno, sganciate dalle aviazioni israeliana e americana sui siti nucleari iraniani - per Trump «uno degli interventi militari di maggior successo della storia» – nei rapporti dello staff di Jeffrey l’operazione sarebbe stata invece descritta «di impatto limitato, utile a ritardare solo di qualche mese il programma nucleare dell’Iran». E oltre al Pentagono, nel mirino sono finite la Cia e l’Nsa, l’Agenzia per la sicurezza nazionale. Con un apposito executiveorder, il presidente aveva licenziato 37 analisti, impiegati soprattutto sugli scenari russo e cinese. Tra loro, coloro che avevano documentato la presunta ingerenza russa nelle elezioni americane del 2016, con una lunga coda di polemiche e di inchieste, con effetto però pari a zero. Trump, che aveva vinto sulla Clinton, ha poi stracciato la nuova antagonista Kamala Harris. I suoi rapporti nei confronti delle donne qui non c’entrano, benchè sia nota la sua - diciamo- spregiudicatezza.
È in gioco ben altro. Vanno perduti anni di conoscenze, reti di informatori, capacità di previsione. Non potranno sostituirle i fedelissimi del tycoon, tra immobiliaristi e comparse tv, né i cervelli tecnologici. A Mosca lo sanno, grati. A noi, forse, gioverà saperlo.