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Basta «depositi di bare»: l’università rimetta gli studenti al centro

 
Gianfranco Longo

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Gianfranco Longo

Basta «depositi di bare»: l’università rimetta gli studenti al centro

Bisogna tornare a riaffermare l’Università quale incontro che testimoni dedizione vocazionale a una missione umanamente e personalmente formativa

Domenica 25 Maggio 2025, 13:00

Ogni nuovo sessennio alla guida di una Università è fedeltà a un impegno: rivoluzionare apparato docente ed amministrativo significa motivare tutti ad essere in uscita, a raggiungere le periferie esistenziali degli studenti, non mondanizzando l’Università in un’occasione di prestigio da far valere, al di fuori, nell’esercizio autoreferenziale di politica, consulenze e libere professioni.

Bisogna tornare a riaffermare l’Università quale incontro che testimoni dedizione vocazionale a una missione umanamente e personalmente formativa, perché gli studenti, e non solo, recuperino fiducia in sé stessi, disposti tutti a credere nel loro esito. La vita, peraltro, non si compone di miscellanee familiari che contano di più rispetto ad altre, calpestando orfani e vedove, rendendo la ricerca e la didattica un intrico autoreferenziale, snob e schifiltoso, ristagnando in un neo-feudalesimo in cui alcuni già riescono ed altri, non appartenendo, resteranno in periferia. La vita non è un esodo da una periferia ad un’altra, ma un itinerario: esperienza di riuscita e di mancanza.

Ogni età conosce momenti diversi, di gioia e di dolore; ma allenati alla fiducia, si trasforma il dolore in speranza e la speranza in una riuscita, vera, reale. Il territorio universitario è, infatti, sinodale centro di esperienze e modelli, non standard, ma vera crescita comune di unità fra docenti e amministrativi, fra docenti e studenti, uscendo da propri territori ristretti, incupiti dal bullismo della gens docens omologata al comando ab universitate condita, insieme a loro famigli, questuanti un posto per rischiarare un’esistenza infamata a casta. L’esistenza, però, non è la vita, e la vita non è un cortocircuito di ranghi e ceti, di sfide e mediocri pretese, sviando da vocazione didattica e da missione alla ricerca.

L’Università neppure è luogo periferico, insieme ad altri, dai cancelli chiusi e guardie a loro custodia, lugubre rappresentazione riflettente, quasi gestuale, lo spazio interno di un mondo anonimo esterno, richiamante i versi celebri della raccolta di Peter Handke, del 1969, in cui i mondi infine si annullano, ritrovandosi in una loro specifica periferia: un non-luogo. L’Università non è infatti una narrazione schematica, ipnotico-ideativa, di sumeriche promesse e magniloquenti traguardi, di cui successivamente si enumerano mancati esiti, con intenti da rinviare a tempi migliori, ancorandosi a progettualità ossessive, palatali, senza più distinguere vocazione e missione dal restare ingabbiati in un narcisismo accademico.

L’Università è piuttosto apertura vitale all’incisività di un fine ontologico e formativo, personale e professionalizzante: la riuscita degli studenti in un indirizzo pedagogico che realizza gli itinerari di ricerca, in Italia liberi, indipendenti e garantiti costituzionalmente (artt. 33-34).

Perciò la proposta di un nuovo sessennio non deve limitarsi a un mero indice di attività da svolgere in un’urgenza invocata in vari appelli emotivi e comiziali. Si desidera credere che ogni sessennio alla guida di una Università produca realmente vitalità culturale, iscrizioni in numero risalente la china grazie a una rinnovata ontologica qualità didattica, condizioni tutte volte a rifondare vivace entusiasmo critico, valutativo ed epistemologico, confronto dialettico e partecipativo, interdisciplinare scambio dei saperi.

L’Università non è, d’altronde, un deposito di bare o salme da inumare in fosse comuni: il primo e vero obiettivo di ogni ruolo si concentra negli studenti, la cui rilevanza nel sistema universitario è pari a quella che i pazienti rivestono, non certo per le industrie dei farmaci, quanto per medici e personale ospedaliero. Pertanto orticarie di candidature al governo di una Università, intricate poiché qualcuna sfrutta l’ambizione di un’altra per potersi poi confrontare e, in tale coordinamento, offrire situazioni elettorali che richiederanno un termine di riscontro successivo, come fosse stato tutto un liturgico investimento, rendono sfuggente la qualità nonché sfuocati i presupposti, fra cui l’attrattiva didattica e la qualità della ricerca dei docenti in cui si riflette l’offerta formativa, affinché il capitale umano non vada disperso verso università lontane dal comune territorio.

Ogni Università, quindi, specie quando è in gioco il ruolo del suo futuro governo, deve considerarsi un polo di necessaria ed indispensabile centralità formativa, di impegni, di compiti, accantonando elenchi di promesse non mantenute o di quanto rimasto incompiuto. D’altronde «bisogna essere sempre pronti a imparare qualcosa di completamente nuovo» (L. Wittgenstein, Osservazione sui colori, III, 45); è un’accettazione umile di quella ineluttabile incompletezza di ognuno con cui possiamo tornare davvero a essere Università.

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