Da anni si parla del vino solo in termini cuvée e di tutta il lessico che alimenta l’ennesima mitologia mediatica. Rassegne, produzione riservata all’export, ora sotto lo schiaffo dei dazi trumpiani, winemakers, incognite derivanti dai mutamenti climatici. E delle olive? Nel Salento incombe la Xylella, che da ultimo suscita l’interesse, la preoccupazione e le iniziative di Helen Mirren, altra icona del cinema venuta a stabilirsi qui.
Dove sono finite le tradizioni della vendemmia e della brucatura, della bacchiatura, della pettinatura, che segnavano il trapasso stagionale a queste latitudini? L’odore del mosto che spirava dalle cantine, sospinto nei vicoli dai ventilatori, quello della sansa che si levava dai frantoi? Gli aneddoti dei braccianti che provvedevano alle due raccolte insieme agli stessi proprietari nel caso dei piccoli poderi?
«L’uva vuol dire il buono, il bello, il tanto», verseggiava Giovanni Pascoli in La vendemmia, che pur non riferendosi allo specifico pugliese tesseva con la sua poesia un tributo epico al taglio dei grappoli, ricavandone la saga del succo di mosto. E ancora, Cesare Pavese: «Una vigna che sale sul dorso di un colle fino a incedersi nel cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e profonde appaiono una porta magica. Sotto le viti la terra rossa è dissodata, le foglie nascondono tesori, e di là dalle foglie sta il cielo». O Italo Calvino: «Ma c’erano vaste pendici di vigneti, e ad agosto, sotto il fogliame dei filari l’uva rossese gonfiava in grappoli d’un succo denso già di color vino». In Gargano segreto e Il mio Gargano, il grande letterato di San Marco in Lamis, Pasquale Soccio, si profonde in evocazioni dei filari che disegnano la mappa dei vigneti sulla Capitanata.
La vendemmia era anche un modo di arrotondare la paghetta settimanale per gli studenti della generazione che a scuola ci tornava il primo ottobre. Fra di loro, l’attore Gino Nardella, oggi assurto alla celebrità come agente Casella, pezzo forte della squadra di Rocco Schiavone nella serie RAI. Lui a vendemmiare ci andava su un ciclomotore Piaggio, modello «Ciao», del 1971, più che sufficiente in quei mesi di settembre ancora tiepidi, se non torridi. Mentre Andrea Pazienza rombava lungo i tratturi sul Dingo Cross della Guzzi.
Nelle vigne si mescolavano ai braccianti altri studenti riciclatisi coglitori d’uva, chi per lusso, chi per necessità. «Cugghjite! Cugghjite l’acini, ca quill so’ tutti vuccherucci di vino!» urlavano certi anziani esperti agli acnoici dilettanti. Ovvero: «Cogliete! Cogliete tutti i chicchi sparsi sul terreno, ché anche quelli sono tutti bicchierini di vino in più!».
Esperti di agricoltura avrebbero notato che si insisteva a piantare i tendoni, laddove nella Valle d’Itria si optava per la vigna vascia, bassa, che negli anni avrebbe fruttato a Locorotondo il primato pugliese.
Quanto alla raccolta delle olive, fu il tratto identificatore di Rosanna Fratello, originaria di San Severo, nel programma serale I soliti ignoti. La cantante riandò con orgoglio alle sue radici. La campagna costituiva un rito iniziatico senza distinzione di sessi. Donne e uomini, ragazze e ragazzi liberavano i nodosi e secolari alberi di ulivo dai frutti che avrebbero trionfato nelle cucine.
Prima della Xylella, quei tronchi componevano foreste ubertose, dove i rami e le fronde intrecciavano poemi bucolici da trasformare nel condimento essenziale.
Vi dedica una lirica sublime Padre Enzo Bianchi: «Ho contemplato a lungo questo vecchio ulivo /cresciuto in terra arida / piegato e scavato dal vento maestrale / sbattuto da tempeste e arso dal sole cocente. /Tuttavia, carico di frutti, dona olio fragrante / come chi dopo una vita dura vive ancora / donando fiducia e creando speranza.»
E non ci si aspetterebbe di incontrare sul tema uno stralcio di Agatha Christie, così lontana dalla solarità meridionale: «Com’era bello starsene seduti sotto gli ulivi, appagati e felici di essere insieme in quella specie di paradiso terrestre».
















