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Almasri e le guerre: i «danni collaterali» e la legge dell’etica

 
Francesco Bellino

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Francesco Bellino

«Nessuno alla mia sinistra», se il caso Almasri infiamma i toni di Conte e Schlein

foto Ansa

Dura lex sed lex è l’espressione in latino volgare del principio presente del Digesto, per dire che alla legge bisogna obbedire, anche quando si tratta di una norma rigorosa e punitiva

Mercoledì 26 Febbraio 2025, 13:30

Dura lex sed lex è l’espressione in latino volgare del principio presente del Digesto, per dire che alla legge bisogna obbedire, anche quando si tratta di una norma rigorosa e punitiva. Fa da pendant a questa nota espressione il detto attribuito a Solone: «La legge è come una ragnatela: se vi cade qualcosa di leggero essa lo trattiene, mentre ciò che è pesante la rompe e fugge via». Questa espressione si trova anche nella lingua inglese: «La legge prende le mosche, ma lascia liberi i calabroni» (Laws catch flies but let hornets go free).

Sappiamo anche che la legge scritta non è la sola legge, ma ci sono anche quelle leggi non scritte, ma che da sempre sono custodite nella coscienza dell’uomo e alle quali ci richiamiamo, come Antigone, quando le leggi scritte non le rispettano. La disobbedienza viene in questi casi legittimata, perché la coscienza non deve obbedire alla legge ingiusta. Le armi attuali (missili, bombe) non pongono  i combattenti sullo stesso piano, distruggono alla cieca beni e civili innocenti, per non parlare delle armi atomiche usate a Hiroshima e Nagasaki. Con le armi di distruzione di massa non si distinguono più le aree militarizzate dalle altre e si nascondono armi micidiali in asili, luoghi di culto, scuole, ospedali. Le possibilità di spietate carneficine diventano reali.

Dobbiamo rassegnarci ai «danni collaterali» delle guerre o possiamo anche chiederci, da esseri consapevoli e pensanti, se in qualche misura possono evitarsi? Ci interroghiamo con Dino Colafrancesco («Danni collaterali a Gaza e dintorni», in «Il Giornale del Piemonte e della Liguria, 4.2.2025»). «La guerra è guerra!», si dice. Ma le crudeltà inutili, le decisioni avventate, le violenze e le atrocità vanno messe sempre nel dimenticatoio? Le 60 mila donne stuprate dai goumiers marocchini del generale Alphonse Juin (cifra riportata nel 1952 alla Camera dalla deputata del PCI M. Maddalena Rossi) erano un prezzo inevitabile della guerra di liberazione? Le 42 pagine della Corte internazionale della richiesta d’arresto del generale Almasri sono un elenco dei «danni collaterali» delle politiche repressive de fenomeno migratorio, degli efferati crimini, che vanno dai lavori forzati alle torture, alla violenza sessuale, alla vendita delle persone come schiavi, all’omicidio. Era punita nei campi libici anche la pietà delle guardie che aiutavano i detenuti ad avere contatti con le famiglie o a ottenere cibo migliore.

È lecito chiedersi se c’è un limite tra guerra e barbarie, tra violenza e crudeltà? Sopravvive un barlume di etica nella guerra, nei conflitti? Quando la legge morale del «non uccidere» viene infranta, c’è un limite alla distruttività umana? Ci si può ancora appellare alla lex, o tutto scappa via dalla ragnatela della legge? Dov’è la legge morale che è scritta nel cuore dell’uomo? Una gran parte dell’umanità, la chiama la legge di Dio, l’altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né all’una né all’altra, per don Milani, «non sono che un’infima minoranza malata, Sono i cultori dell’obbedienza cieca». Se vengono legittimate la crudeltà e la barbarie e restano impunite, si afferma in modo assoluto la legge del più forte e viene deligittimato tutto l’ordine giuridico. La legge, come ha affermato Montesquieu, «è la ragione umana, in quanto essa governa tutti i popoli della terra» (De l’esprit des lois, I, 3). Senza la legge la società diventa una giungla irrazionale. Dal bellum omnium contra omnes si avvantaggiamo i più furbi, i più violenti, rendendo la vita invivibile e insicura. Da questa situazione nascono le dittature e il totalitarismo.

Il mondo antico praticava la pietas come argine alla barbarie, il mondo attuale ha creato un organismo internazionale super partes, la Corte penale Internazionale dell’Aja, per giudicare questi crimini. Il fine delle pene non è di tormentare e affliggere un essere senziente, ci ha insegnato Cesare Beccaria, ma è «d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali» e, aggiungiamo, di tenere in vita la civiltà giuridica, che è stata la più grande conquista dell’umanità per arginare i conflitti non con la violenza, ma con la ragione e con il dialogo.

Essendo crimini contro l’umanità, vanno al di là dei confini nazionali. Nessuna ragione di Stato può giustificarli. Se anche i crimini contro l’umanità restano impuniti, il lumicino della ragione, che mantiene in vita il diritto anche nelle situazioni più buie e disumane, si spegne. Muore anche tutta la civiltà giuridica e ritorniamo alla vichiana barbarie.

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