Il rispetto della sovranità di un Paese è inderogabile. Bene ha fatto il Presidente della Repubblica a sottolinearne l’importanza dopo l’entrata a gamba lunga di Elon Musk sui magistrati italiani in tema di migranti. I massimi organi giudiziari italiani applicano la legge, non agiscono sulla scorta di pareri personali. Qui vige l’obbligatorietà dell’azione penale, diversamente dagli Stati Uniti, dove l’apparato giuridico risponde al potere esecutivo e quella dei giudici, a certi livelli, costituisce una carica elettiva.
Ma la dinamica dovrebbe funzionare anche nella direzione opposta. Prima e dopo le elezioni americane, un fantasma si aggirava nei talk show e nel dibattito politico nazionale: la vittoria di Donald Trump. Da alcuni auspicata con un tifo calcistico tipicamente peninsulare, da altri temuta con un terrore quasi esorcistico.
La scelta spettava invece solo e soltanto ai cittadini del Paese caratterizzato da un ascensore sociale in Italia del tutto assente o perfino inconcepibile. Lo si chiami American dream, sogno americano, o destino manifesto, si tratta del dinamismo di una società che, a più di duecento anni dalla Dichiarazione di Indipendenza, è ancora giovane, fresco e ricco di opportunità. Un assetto che travalica l’età di chiunque, perché insito nel codice genetico del Nuovo Mondo.
Il suo più profondo conoscitore e analista rimane a tutt’oggi il francese Alexis de Tocqueville, che vi dedicò la sua opera più conosciuta, La democrazia in America, dove scrive, fra l’altro: «Quasi tutti gli abitanti degli Stati Uniti seguono uno stesso indirizzo di pensiero che tiene conto delle stesse norme: il che significa che essi posseggono, senza che si siano mai preoccupati di definirne le regole, un certo metodo filosofico, che è comune a tutti. Sfuggire allo spirito di sistema, al giogo delle abitudini, alle regole familiari, alle opinioni di classe e, fino a un certo punto, ai pregiudizi nazionali; non prendere la tradizione se non come informazione e i fatti presenti se non come uno studio utile per fare diversamente e meglio; cercare attraverso se stessi, e in se stessi soltanto, la ragione delle cose, tendere al risultato senza rimanere prigionieri del mezzo, e mirare alla sostanza attraverso la forma».
È la perfetta epigrafe da applicare all’ascesa di Donald Trump. Non l’eccesso del politicamente corretto e del woke in casa dem e liberal, non – solo – le aspettative crescenti, per usare una bella formula del compianto Alberto Ronchey, della classe media bianca impoverita e sospinta verso il baratro dalla globalizzazione e dalla rincorsa ai prezzi e ai salari diminuiti, non le minoranze che si sentono oppresse dall’arrivo in eccesso delle loro stesse minoranze, non la promessa di un ritorno all’edonismo dei barbecue e delle bistecche. Tutto questo non costituisce altro che la nuova cornice del sempiterno quadro americano.
Allora è inutile recriminare sul Presidente Eletto, che rappresenta il risultato inoppugnabile del complesso sistema di voto su cui si basa la democrazia americana. Malgrado la dinamica dei «grandi elettori» e del punteggio ai singoli stati sulla base della demografia, alla fine ha piena legittimità la volontà popolare.
Quanto all’invocato rispetto della sovranità dell’Italia, sembra che di colpo sia stata dimenticata la geopolitica nata a Yalta, proseguita anche dopo la caduta del Muro e tanto più in recrudescenza adesso che dalla Guerra Fredda si è passati alla guerra guerreggiata, per procura, sulle immense e insanguinate distese dell’Ucraina.
Dal dopoguerra, per l’Italia si parlava sempre di democrazia a sovranità limitata. Moro pagò con la vita la sua apertura alla compartecipazione dei comunisti al governo. E non bastò a dissipare il Fattore K, altra efficace formula coniata sempre da Alberto Ronchey. Neanche l’affermazione di Berlinguer sul fatto di sentirsi più al sicuro sotto l’ombrello della NATO e il suo decretare, dopo i moti in Polonia e le lotte di Solidarnosc, che la rivoluzione sovietica aveva perso la spinta propulsiva.
Poco indietro nel tempo, la strategia della tensione, Gladio e le ingerenze continue nella sovranità italiana, tragicamente esplicitate nella dura conversazione tra Kissinger e Moro, che costò allo statista pugliese un grave malore.
Quelle sì che erano violazioni della sovranità italiana, a fronte di una politica estera trumpiana già sperimentata nel corso del suo primo soggiorno alla Casa Bianca: il primato dell’interesse nazionale e, di fatto, il neoisolazionismo.