«È nostro dovere essere delle spine nel fianco ed è un onore far vivere la loro memoria guardando il mondo con i loro occhi».
Le parole di Viviana Matrangola, la domenica di Pasqua, spazzano con una manciata di sillabe le ipocrisie di messaggi whatsapp copincollati, le chiamate frettolose nel dì di festa per assolvere a doveri formali e gettano sostanza, pesante, sul senso reale della Resurrezione - quella dell’animo e della coscienza -. Pesano, le parole di una figlia per cui la Pasqua coincida con i 40 anni dall’assassinio della madre, Renata Fonte. Senza odio, senza livore, zavorre troppo pesanti per chi ha fretta di correre incontro alla vita. Nonostante.
Renata è la prima donna riconosciuta vittima di mafia in Puglia. E ce n’è voluto.
Uccisa sotto casa a colpi di pistola il 31 marzo 1984, ma riconosciuta tale dalla commissione del dipartimento affari civili del ministero dell’Interno solo nel 2002.
Col linguaggio contemporaneo forse l’avremmo definito «femminicidio per mano mafiosa». Pensato, messo a punto e compiuto da uomini, per silenziare una femmina ingombrante, fiera, chiassosa, che osava utilizzare la Politica per finalità non personali ma civili, battaglie di comunità. Mettendoci la faccia. L’esatto contrario di chi, alle spalle, vile e senza coraggio la colpì.
Senza sapere che il chiodo al muro delle responsabilità di tutti e di ognuno, Renata Fonte l’avrebbe conficcato proprio con la sua morte. Che l’ha resa eterna.
Ma davvero voleva cambiare il mondo, l’assessora di Nardò, lei da sola? Che poi alla fine, se certi affari le puzzavano tanto, avrebbe potuto voltare lo sguardo di pochi gradi, non vedere, turarsi il naso e passare oltre. E invece no, s’incaponiva, s’impuntava, gridava, benedetta femmina!
E allora… gli spari al posto delle sue urla. Uno scambio iniquo, perché quelle urla si sentono ancora. Nel vento, tra le fronde degli alberi del belvedere di Portoselvaggio, nelle mani nervose e pregne di vita delle figlie Sabrina e Viviana, nei fiumi di parole di chi sente la tensione morale della testimonianza attiva, nello scirocco e nella tramontana che agitano quei luoghi. Ventosi e ribelli come lei.
Questa terra ha maturato un debito, verso Renata. Senza fine. E la presa in carico dei debiti si chiama impegno. Reale, concreto. Oltre i palchi, le frasi fatte, i coni di luce da rendita. L’impegno è silenzioso, faticoso, va nutrito giorno per giorno di contenuti. E i contenuti sono i fatti. La concretezza costante, quotidiana, senza sosta, senza ferie, di tutti e di ognuno. La verità.
Di quanti a favore di camera oggi ricordano Renata Fonte, quanti davvero l’avrebbero davvero difesa allora? C’è che è più facile piangere i morti, strappando un applauso, che tutelare i vivi dall’isolamento che porta alla morte.
È più sbrigativo e gratuito abusare di termini ed espressioni come antimafia, legalità, schiena dritta, che mettere le mani nel fango e nella dinamite e provare a pulire, disinnescare gli ordigni che minano la tenuta stabile della società civile. E se lo fa qualcun altro allora è pazzo, visionario, e va allontanato perché l’onda d’urto non travolga la nostra quiete opaca e limacciosa. Facciamo memoria, ma di memoria pecchiamo. Molto spesso.
Per questo c’è chi ancora ammazza Renata, ogni giorno. Con la mistificazione, l’endovena venefica del dubbio su genesi e cause del delitto, il rodimento davanti all’intitolazione di una piazza, di una via, di un edificio. Ma lei col suo fiore tra i capelli, condanna più da morta che da viva, alla vergogna.
Scegliere la verità, nei giorni travagliati di Renata come oggi, equivale a caricarsi una croce, una lotta quotidiana su una strada irta di incomprensioni e perdite, vestire la corazza bucherellata dei divisivi, e creare conflitti perché non si è disposti a sacrificare sull’altare del compromesso valori imprescindibili. E vuol dire correre il rischio di rimanere soli.