È di qualche giorno fa la storia di Ugo Gaiani, medico che va in pensione dopo 39 anni e distrugge con una mazza da baseball il telefono, davanti ai pazienti in piazza a Guastalla. Trattasi di un momento appositamente organizzato dal medico al termine del suo ultimo giorno di lavoro che ha radunato conoscenti pazienti e amici, in tutto 150 circa, per vivere a suo dire, un momento liberatorio, a seguito del quale ha anche offerto un rinfresco di ringraziamento.
Come ha raccontato il dott. Gaiani al Resto del Carlino, nei suoi anni aveva sopportato difficili momenti di stress, tra reperibilità e pazienti sempre meno pazienti, influendo sulle sue condizioni di salute, trasformando il lavoro in vero incubo.
Le 16 ore di lavoro al giorno, dormendo poco di notte, che si sono poi aggravate durante la pandemia e soprattutto nel post Covid, dove la gente è diventata più cattiva e maleducata. Non nega la nascita di tanti rapporti umani positivi che poi si sono trasformati in amicizia, ma anche di tanti rapporti finiti o incrinati.
Come primo rito di chiusura dell’attività, il medico dice di essersi concesso un giro sulla sua moto in Appennino, per rilassarsi. Un problema quello dello stress e del burn out in ambito sanitario che affligge molti operatori e professionisti della medicina, che se da un lato è stato causato dalle emergenze sanitarie, dall’altro sconta una mancata organizzazione del sistema sanitario nazionale, che nonostante numerose iniziative, incontra continuamente nuove sfide mettendo in difficoltà medici e personale di comparto.
Al di là degli indubbi tentativi di far fronte alle emergenze da parte delle strutture sanitarie, viene da chiedersi con quali strumenti interiori, o strategie di fronteggiamento, questi ultimi gestiscono le emergenze, lo stress e il burn out che da essi derivano. In questo periodo, inoltre, ci sono spesso reparti sottorganico, con scarse risorse e non rispondenti alle qualifiche necessarie.
Tutto questo poi, appesantito e aggravato dall’atteggiamento dei pazienti impazienti, a cui Gaiani faceva riferimento e all’aggressività avvertita da parte loro, talvolta incattiviti da lunghe attese, da assenza del servizio di qualità, da mancanza di umanità e di ascolto da parte del personale.
E allora cosa si fa? Umanizzare le cure, riportare la persona al centro del processo di erogazione del servizio, è una strategia che non riguarda solo i pazienti e il loro benessere, ma che coinvolge in primis le organizzazioni e le persone che le vivono. Puntare ad essere co-autori del benessere significa partire da sé stessi, rafforzando quelle leve che consentono di prevedere e gestire le crisi personali e strutturali, attraverso percorsi di benessere personale e collettivo, in cui studiare insieme la nuova strategia di fronteggiamento e di risposta.
Un primo passo è quello di costruire un team coeso, favorendo logiche di aggregazione che superano i meccanismi di interesse su cui alcuni gruppi si fondano e iniziare a cooperare per il bene comune e dell’utenza. Successivamente è possibile analizzare flussi di lavoro e processi per distribuire al meglio il lavoro tra gli operatori anche utilizzando misure e istituti di flessibilità e di conciliazione vita lavoro (polifunzionalità e interscambiabilità). Infine, formarsi e aiutarsi con percorsi esperienziali attivi e applicare pratiche che costruiscano e alimentino un clima positivo, poiché la salute delle persone di cui ci si prende cura dipende soprattutto dalla propria salute mentale e fisica complessiva e dal clima di benessere e di salute che si respira nelle strutture, attraverso incontri, sguardi, efficienza, collaborazione, armonia, presenza mentale oltre che fisica, comunicazione empatica e relazioni generative.
Ma alla base di tutto, prendersi cura di sé stessi, prima che degli altri è una pratica preventiva, che aiuta a sviluppare resilienza e ad elaborare le frustrazioni derivanti dalla vita e dal lavoro. Se i medici come Gaiani decidessero di prendere il proprio tempo per le proprie passioni come base di salute per il proprio benessere senza attendere fino alla pensione, cosa cambierebbe nella capacità di gestire l’impazienza dei pazienti e la propria?